C’era mia mamma che mi raccontava un aneddoto della sua infanzia che potevo immaginarmi solo in un bianco e nero d’antan. Mamma viveva in campagna, era figlia dei “siori” del paese e passava un sacco di tempo con le fantesche che aiutavano sua madre nelle faccende domestiche. Una di queste, si chiamava Adele, raccontava fra un sospiro e l’altro a “Siora Maria”, mia nonna, che il marito era burbero, scostante, spesso violento, soprattutto quando tornava a casa «‘mbriago». Allora, sempre secondo il racconto di mia mamma, la nonna si mostrava comprensiva, ma sostanzialmente fatalista. Così va il mondo, insomma: sopportare, mediare, pregare. Caso mai, avrebbe detto a Sior Attilio (il nonno, mia nonna non diceva mai “mio marito”, ma Sior Attilio, e questo già la dice lunga) di dire due parole al marito che era un suo fattore, al che Adele si ritraeva inorridita. “No, par carità, no, siora Maria…”. Molto più icastica era invece mia mamma che, ancora bambina, tirava le gonne di Adele suggerendole un consiglio più operativo: “Còpeo ‘Dele, intanto che el dorme, còpeo”.
In un bel bianco e nero è anche il film di Cortellesi, ondeggiante fra il neorealismo crudo delle origini e il più edulcorato ed educato neorealismo rosa, annotazione questa che non vuol essere critica, perché la raffinatezza e l’intelligenza del film di Cortellesi stanno proprio nella delicata tessitura di antifrasi che regge tutta la narrazione e che si mostra spesso nel cortocircuito che regia e montaggio innescano fra musica extradiegetica ed immagini. Le scene iniziali, che precedono ancora i titoli di testa, sono rivelatrici di tutto l’andamento successivo: il risveglio della famiglia di Delia (Paola Cortellesi che si ritaglia un gran bel ruolo nel film) entra in contrappunto con la svenevole colonna sonora di Aprite le finestre di Fiorella Bini (1956). Il piano sequenza – con la mamma che apre con frettolosa e fittizia allegria le imposte e i figli che si svegliano e fanno colazione prima di andare a scuola – sembra ricalcare, nelle movenze e nei tempi, i quadretti della pubblicità del Mulino Bianco (salvo che per lo schiaffone gratuito che Delia riceve dal marito appena sveglia), solo che la famiglia vive rintanata in un sordido scantinato di un palazzo popolare del Testaccio a Roma nel immediato secondo dopoguerra, e ogni immagine, nuvole di polvere che invadono la casa, un cane che urina sul davanzale a livello del suolo, disdice lo stucchevole testo della canzone (“lasciate entrare un fiotto d’aria pura, il profumo dei giardini e prati in fior”) anticipando quelle che saranno le scelte stilistiche successive. Anche la storia è di per sé sordida. Delia vive dominata e angariata da un marito, prepotente e violento (Valerio Mastrandrea che sembra divertirsi molto nella parte dell’energumeno), e, in sovrapprezzo, deve accudire un altro orco – il suocero, allettato, ma non per questo meno tentacolare nei i palpeggiamenti, che sembra la conferma sperimentale del motto: “tale padre, tale figlio”. La discendenza maschile, del resto, va nella stessa direzione, due marmocchi insopportabili, egoisti e maneschi, che non fanno altro che litigare fra loro, mentre la figlia, l’unica che sembrerebbe avere un lume di consapevolezza, è perdutamente innamorata di un bellimbusto, figlio di burini arricchiti, in cui si vede già in germe un nuovo marito-padrone. Da un soggetto del genere, il rischio era quello di tirar fuori l’ennesima truce vicenda di coatti romani, mentre Cortellesi racconta invece una storia gentile di resilienza, scivolando con leggerezza amara sugli aspetti più turpi, mescolando assieme con gusto e levità micro-storie di vita vissuta con la grande storia che conosceva con le elezioni del 1946 una pagina fondamentale per l’estensione dei diritti delle donne, e riuscendo anche, grazie alla abilità di scrittura della sceneggiatura, a spiazzare lo spettatore con la trovata ingegnosa di una misteriosa lettera (d’amore?) attorno cui -come per la lettera nascosta di Poe – ruota gran parte della suspence della narrazione.
Certo, non dobbiamo pretendere dal lavoro di Cortellesi quello che non può, né vuole presentare: realismo spietato, scavo dei personaggi, complessità lacerante delle situazioni e forse lo spiraglio di rosea speranza nel futuro che si affaccia nella rassicurante conclusione potrebbe apparire, con il senno di poi, non tanto dissimile dallo spalancarsi alla primavera delle finestre della casa di Delia. Bisogna prendere il film per quello che è: un divertente e garbato apologo, ispirato da un sano senso civico, che, mentre offre un amorevole omaggio al cinema di Castellani, Comencini o Emmer, ha anche il merito di compiere, nel momento stesso in cui evoca la mitizzata genuinità delle borgate romane, dei filò delle donne nei cortili dei casermoni popolari, dei bambini che corrono dietro ad una palla e dei vecchi che giocano a carte, un’operazione di ironico disincanto della nostalgia del bel mondo antico del passato (che tanto bello non doveva essere).
Se poi volete un ultimo parere non richiesto, avrei preferito un po’ meno cortesia e un po’ più di humour noir, diciamo, un piccolo apporto di mia mamma alla sceneggiatura
