In un testo giovanile del periodo bernese, Religione popolare e Cristianesimo, sviluppando temi poi ripresi nel manoscritto Lo Spirito del Cristianesimo e il suo destino, Hegel parlava della religione biblica come di una fede che isola l’individuo nel suo rapporto assoluto con Dio, lo imprigiona in una rete di dogmi e precetti, spezzando l’originaria alleanza che stringe l’uomo alla natura, alterandone irrimediabilmente l’armonico legame che li connette e relegando così il soggetto alla solitudine e all’inimicizia rispetto al cosmo in cui è comunque immerso (e adesso, fuggiti gli ultimi sparuti lettori dopo questa citazione, continuo in beata solitudine)
È un po’ questo lo spirito in cui è immerso quella sorta di viaggio metafisico che Lucas, un curato luteràno danese, intraprende, alla fine del XIX secolo, attraverso le immensità spietate degli spazi del grande nord per inaugurare una nuova chiesa ai limiti estremi dell’Islanda. Già l’approccio alla missione evangelizzatrice assume i caratteri di un progressivo allontanamento dalla rassicurante protezione del candore lindo del presbiterio, dove il sacerdote aveva ricevuto l’incarico da un suo superiore. Dopo aver superato l’ondeggiare grigio ferro del mare, gravato dal fardello della pesante apparecchiatura della macchina fotografica, Lucas giunge in una terra ostile che lo accoglie imperscrutabile come un pianeta alieno. È la luce livida, gelida, estenuante dei paesaggi sconfinati dell’Islanda la protagonista assoluta del viaggio, una luce pallida ma snervante, che sembra un po’ alla volta prosciugare la volontà di Lucas sempre più solo, isolato anche a causa a della barriera linguistica dalle sue guide islandesi, condotte dal aspro e barbaro Ragnar che pare incarnare, nel suo fare brusco, l’estraneità avversa del paesaggio. Una luce che diventa ingannevolmente più calda quando, con un elisse spiazzante, Lucas si ritrova, dopo essere stato apparentemente abbandonato febbricitante nel grande nulla dei deserti malva islandesi, nel villaggio di coloni che era la sua meta prefissata. Qui il curato dovrà combattere e soccombere, in un’altra lotta, la naturalità delle passioni che cominciano a divorarlo: il desiderio per la bella Anna, figlia di uno dei coloni più eminenti del villaggio e il livore astioso, sempre più incontrollato, nei confronti di Ragnar.
Di una ampiezza sterminata come gli scenari che filma, lento come l’immobile stagnare del tempo nei grigi e piovosi cieli della tundra islandese, il film di Hylinur Palmason è diretto con una regia austera fino all’astrazione, vibrante di evidenti echi herzoghiani, che comprime nel formato inusuale di 4:3, con i bordi arrotondati per richiamare i dagherrotipi di Lucas, i campi lunghissimi delle vastità islandesi che sfondano prospetticamente i limiti della cornice, sottolineando ancora di più, in questo modo, il senso di smarrimento generato dal loro vuoto infinito. Il rapporto fra l’energia selvaggia, tellurica del paesaggio – emblematiche in questo senso sono le riprese del magma infuocato che la terra rigurgita – e la volontà ordinatrice di Lucas, impegnata non tanto ad ammansire attraverso la preghiera e la carità l’alterità maestosa e indifferente della natura e la selvatichezza dei nativi, quanto protesa nella sfida di catturarle e fissarle nell’obiettivo della propria macchina fotografica, esorcizzandole, è il tema che attraversa e permea, in modo in vero un po’ rigido, la narrazione e trova il suo compimento nei lunghissimi time lapse finali, quando la terra riassorbe, nella mutazione delle stagioni, il cadavere decomposto di un cavallo, così come il fronte di un ghiacciaio, ripreso con la stessa tecnica, muta impercettibilmente, rimanendo sempre identico. È come se il flusso delle immagini volesse modellarsi sul ritmo del ciclo infinito dell’essere, dove l’asprezza della vita si sposa con la tranquillità della morte in un eterna rinascita che esprime la sacralità pagana e a-tea, nel senso letterale del termine, senza dio e senza trascendenza, della natura. Solo che in questa visione severa, quasi ipnotica nella sua fissità ieratica, non si avverte nessuna partecipazione, nessuna armonia ritrovata. La distanza che separa l’uomo dall’ambiente naturale rimane all’inizio come alla fine del viaggio mistico di Lucas inattraversabile, la sublime e opprimente bellezza degli scenari inospitali, respinge e schiaccia l’individuo che può solo annullarsi nella natura, non sperare di armonizzarsi con essa, Verrebbe quasi da dire che lo sguardo di Palmason sul mondo che evoca non sia poi alla fine molto diverso da quello di Lucas.
Godland (Vanskabte land)
Regia: Hilnyur Palmson
Sceneggiatura: Hilnyur Palmson
Fotografia: Maria von Hauswollf
Montaggio: Julius Krebs Damsbo
Anno 2022
