I dannati

Due immagini di una natura desolata, priva dell’uomo, aprono e chiudono con un grande valore simbolico il film di Minervini. Dei lupi, nel grigio di un tetro bosco di pini, sbranano senza ferocia la carcassa di un giovane cervo. Non c’è crudeltà, né compiacimento, sebbene le viscere vengano strappate dal corpo. L’eterno ripetersi di un ciclo di morte. E poi, verso la fine, in un accampamento militare deserto, dove si intuisce sia stato appena perpetrato un massacro, sotto un cielo livido, un cavallo dimenticato cerca invano di liberarsi dalle redini che lo tengono prigioniero. Inutilmente. Nel mezzo una pattuglia di soldati unionisti durante la Guerra di Successione, attraversano le lande deserte di uno sperduto ovest, brullo e anonimo, spoglio di ogni fascino. Una immensità vuota e insignificante. La loro missione non è ben chiara. Avanzano, pattugliano, in attesa di un nemico che sembra spiarli dal nulla. E si interrogano sul perché si sono trovati in quella situazione, scambiandosi motivazioni discordanti: la fede, la ricerca di un impiego, la gloria, la giustizia. Ma ciascuna di queste suona, nel grande niente, più che falsa, futile, inadeguata. Il ritmo lentissimo del film accentua il senso di oppressione, di soffocamento e, perché no, di noia. E.Junger, uno che di guerra se ne intendeva, diceva che la vita del soldato è per lo più tedio insopportabile. Nonostante gli enormi spazi attraversati, le inquadrature prive di profondità di campo si soffermano sui volti dei soldati, irsuti come uomini primitivi, fissati nel loro sguardo perso come in dagherrotipi d’epoca. Poi, inaspettato e insensato esplode uno scontro a fuoco. La macchina da presa comincia a scartare, quasi imbizzarrita, inseguendo e sopravanzando i soldati che sparano contro lampi che provengono dalla foresta dove un nemico invisibile come i Tartari di Buzzati (o gli avversari della squadra di baseball di Charlie Brown) minaccia i soldati. Secondo un modello dai riconosciuti antecedenti letterari (Stendhal, Tolstoj) non c’è nessuna logica, nessuna strategia o tattica che guidi il combattimento se non una frenesia di morte ed assieme un istinto di sopravvivenza che fa raggomitolare i corpi in uno stato fetale. E poi si ricomincia. Ancora avanti. Ponendosi degli obiettivi intermedi che, già si sa, sono ineffettuali e futili. Ma almeno segmentano, definiscono un termine illusorio a ciò che per sua natura è interminabile.

Metafisico e astratto nella sua ruvida concretezza documentaristica, il film di Minervini trova in questa dimensione la sua forza e il suo limite. Ça va sans dire che non è della Guerra Civile americana che si sta parlando, anche se ogni guerra è a suo modo una guerra intestina, ma di tutte le guerre, della Guerra come grande Moloch, come ciò che pur prodotto dagli uomini, da essi si emancipa seguendo una sua logica autonoma, cieca e indifferente come la natura ostile in cui si perdono i soldati di Minervini, spingendosi oltre il limite e stritolando come un meccanismo insensato, infernale, privo di scopo, i “dannati” che, combattendo, lo alimentano. Probabilmente c’è del vero in questa visione sconfortata, ma c’è anche – al di là della estetica volutamente anti-sublime e anti-pittoresca di Minervini – un sentimento di fascinazione impotente (un terribile amore per la guerra avrebbe detto lo psicanalista James Hillman) che esalta la guerra come una presenza sovraumana inesorabile e inevitabile, ponendo in secondo piano le motivazioni, fin troppo umane di ogni guerra . Ma forse non è questo il limite maggiore del film di Minervini, quanto la sua implicita costruzione a tesi, appena occultata dallo stile documentaristico, la concettosità dei dialoghi che interrompono i lunghi silenzi, non tanto perché risultano poco credibili fra contadini e pionieri dell’estremo West, quanto perché sembrano confrontare tipologie preconcette, facilmente universalizzabili. Allo stesso modo, quando la narrazione accenna alla presenza di un senso di solidarietà umana fra i soldati, sembra richiamare un tropo necessario del racconto di guerra, più che evocare un sentimento vissuto. La rispettabile volontà di Minervini di azzerare ogni retorica od enfasi, il costante lavoro di sottrazione che si esemplifica nell’essenzialità delle immagini e nella dilatazione dei tempi vuoti, elimina la possibilità di qualsiasi minimo scarto, di ogni infrazione, concentrando solo nell’inquadratura finale, la neve che imbianca il volto dei sopravvissuti, lo spazio di una differenza rispetto al basso continuo che uniforma la narrazione. Il ricordo così non può che andare ad un film, per certi aspetti simile nelle intenzioni, ma attraversato da ben altra umanità e, concedetemi la leziosaggine, ben altra poesia come Torneranno i prati di Olmi. Necessario, rigoroso, asciutto il film di Minervini punta a prosciugare di ogni sentimentalismo il modo in cui affronta l’asprezza del tema trattato, correndo però il rischio di eliminare anche ogni sentimento, di apparire un’opera fredda, cerebrale, senza anima. E questo non è un problema da poco, perché non si sta stilando un trattato, ma si sta facendo cinema. E alla fine, il cavallo legato, impossibilitato a scappare, più che l’umanità in senso lato, rischia di essere lo spettatore.

 

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