Il cielo brucia

Una casa al limitare del bosco, vicina ad un mare nordico, luminescente nella notte per strani fenomeni di iridescenza. Un valzer di coppie che si scambiano ed incrociano, lasciando sempre fuori qualcuno, simmetrie di desideri e intrecci di casualità fortuite, lunghi dialoghi inconcludenti, punteggiati però, qua e là, da perle nascoste. È evidente, in quest’ultimo film di Petzold, la volontà di richiamare atmosfere rohmeriane, solo che alla classicità cristallina del metteur en scène francese, corrisponde qui l’inquietudine romantica del regista tedesco e la levità è fin da subito incrinata da segnali minacciosi: bagliori in lontananza, notizie di incendi devastanti, annunci di evacuazioni forzate. E, come diceva Čechov , “se nella scena appare una pistola…”.

La narrazione si presenta con un incipit accattivante: due giovani amici, che non potrebbero essere più diversi sia per carattere che per fattezze fisiche, giungono in una casa di vacanze dove dovrebbero concentrarsi in solitudine e silenzio sui loro rispettivi lavori: l’uno per la stesura di un book di foto per l’ingresso all’accademia, l’altro per gli ultimi ritocchi del suo secondo romanzo. Il fotografo, Felix (nomen omen) è di colore, bello, longilineo, vivace, altruista ed ingenuo; lo scrittore, Leon, bianco slavato, appesantito nel fisico, scorbutico, egocentrico e cinico. Solo che in casa trovano un ospite inaspettato, una giovane donna allegra e sensuale (Paula Beer, ancora una volta come in Undine, bella e perturbante) che rivoluzionerà con la sua esuberanza i progetti dei ragazzi. Petzold è assieme abile e delicato nell’introdurre a poco a poco questa presenza destabilizzante: tracce abbandonate in cucina, mugolii e ansimi di piacere nella notte, un’immagine vista di sfuggita di una ragazza in bicicletta nel giardino, mentre le riprese si muovono con fluidità ed eleganza fra interni ed esterni, gli spazi chiusi ma rivolti all’esterno della casa e le ampie vedute marine. La narrazione tesse così la trama dei rapporti fra i giovani che ruotano attorno alla villa nel bosco perché ben presto ai due amici e a Nadja si unisce anche Devid, aitante bagnino (lui preferirebbe che si dicesse assistente bagnanti) amante di Nadja, ma attratto anche da Felix. Come era prevedibile, Leon, cupo e irascibile, scontroso e provocatore si ritrae, con una sufficienza che desta qualche sospetto, dal girotondo di desiderio e seduzioni incrociate che si intreccia nella casa nel bosco. Arrogante nella sua ostentazione di superiorità intellettuale, quanto incerto sui suoi reali meriti e impacciato nelle relazioni umane, Leon non può che essere attratto dalla vitalità spregiudicata di Nadja e il film gioca le sue carte migliori nel costruire per gradi la tensione fra i due giovani, tratteggiando con ironia le idiosincrasie di Leon e le sue timidezze, quasi un novello Tonio Kröger che si trova, sempre suo malgrado, ai margini della festa. Solo che Petzold finisce per forzare forse troppo la situazione: d’accordo la figura dello scrittore contrastato in sdegnoso conflitto con il mondo, ma non si capisce però bene quale fascino, capace, se non proprio di conquistare Nadja, quanto meno di interessarla, dovrebbe scaturire dai modi antipatici e dai capricci un po’ infantili di Leon (che, per altro, non vorremo essere qui accusati di body shaming, ma dalla sua non può certo giocare la carta dell’avvenenza). Poi arriva la tragedia annunciata, i tempi si accelerano e, un po’ in linea con il cinema del regista tedesco, si dilata il carico simbolico di sequenze allusivamente enigmatiche, ma rimane l’impressione di una mancata integrazione fra le componenti dell’affresco che Petzold disegna: le peripezie del desiderio, le ansie e i dissidi della creazione artistica, il monito per il destino del pianeta. Né giova al tutto una conclusione un po’ facile: la vita maestra dell’arte. Non tanto perché questo non possa essere vero, quanto perché sarebbe stato meglio fare emergere questa lezione, nel solco appunto del cinema di Rohmer, dal reciproco ed ambiguo rispecchiarsi, l’una nell’altra, di finzione e realtà, piuttosto che dichiararlo apertamente nella rinnovata ispirazione di un perennemente scontento e intempestivo Leon.

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