Non sapevo di avere una madre troskista o giù di lì. Per quanto mi ricordo era fieramente avversa a pagare il canone della RAI che mio papà, legalitario come un travet della Cacania di Francesco Giuseppe, regolava invece di nascosto. Forse il suo era però un tipico ribellismo individualista mediterraneo e non era imbevuto di lotta sociale e rivendicazioni welfare state come quello di Kempton Buton (Jim Broadbent scelto per una parte che gli calza a pennello), uno strampalato rivoluzionario piccolo borghese che, se la sera scrive commedie e sceneggiature, regolarmente bocciate, per sublimare il dolore per la morte della figlia, di giorno si scaglia contro i mulini a vento, lottando perché venga riconosciuto il canone della BBC gratis ai pensionati e inventandosi mille altre infruttuose piccole battaglie per la disperazione della moglie, una resiliente Helen Mirren che ha il suo bel da fare per tenere a bada le stranezze del marito e far quadrare il bilancio familiare lavorando a mezzo servizio come donna delle pulizie. Quando poi il governo inglese decide di comprare per l’astronomica cifra di 140.000 sterline (pari a migliaia di canoni per pensionati, questa è l’unità di misura con cui ragiona Kempton) il ritratto del duca di Wellington di Goya (una crosta di un ubriacone spagnolo, è più o meno lo sprezzante giudizio di Buton), il nostro decide di incarnarsi in un novello Robin Hood e scende a Londra per vendicare i pensionati inglesi.
Basato su una storia vera di un furto di un opera d’arte che fece scalpore in Inghilterra negli anni ’60, tanto da meritarsi una citazione nel primo capitolo della saga di James Bond (in ‘007 licenza di uccidere’ il Wellington di Goya capeggiava bel bello nello studio del malvagio Dottor No) l’ultimo lavoro del compianto Roger Michell è una delicata evocazione nostalgica di un mondo più semplice, più facile, più umano, di un limbo sereno, a mezza strada fra il dopoguerra del razionamento e i primi attriti della beat generation. Un mondo di pub fumosi, di quartieri operai di mattoni grigi, di interni piccolo borghesi dove anche le più violente tensioni familiari vengono risolte con “a nice cup of tea”. Michell, che magari non avrà mai avuto la griffe dell’autore acclamato (che non è poi detto che sia un male), ma che è stato certamente un ottimo artigiano, mette in scena con sicurezza la sceneggiatura ben scritta da Richard Bean e Clive Coleman, calibrando con misura ironia e sentimentalismo, humor e eccentricità british. Riesce anche, grazie ad un sapiente uso del montaggio, a tenere da parte un piccolo colpo di scena che squinterna una situazione all’apparenza scontata fin dalle prime inquadrature, anche se non è certo questo l’atout della pellicola, quanto le stravaganti tirate di Broadbent al processo che incarnano alla perfezione il topos del riscatto dell’uomo qualunque davanti alla burocrazia ottusa e monolitica, nella migliore tradizione di: “una risata vi seppellirà”.
Tutto bene quindi, se non che, uscendo dal cinema, è difficile sfuggire all’impressione che si sia assistito alla messa in scena di una affabile retrotopia: una sorta di utopia à rebours, una raffigurazione agrodolce del passato che si presenta quasi come un riparo rassicurante davanti alle incertezze e ai cupi presagi del futuro. L’angelo della storia di Walter Benjamin ha volto lo sguardo, ora non è più diretto, gli occhi sbarrati, verso le macerie del passato, mentre un vento impetuoso, il progresso, lo trascina incontro al futuro. Adesso, come sostiene Bauman, il suo sguardo ansioso è sempre più inquietato dalle nubi che si addensano minacciose all’orizzonte, tanto che l’unico sollievo sembra essere quello di una brezza leggera che lo sospinge a ritroso, nel rifugio di un passato per lo più immaginario perché privo di reali contraddizioni e ruvide asperità . Come diceva Svetlana Boym “La nostalgia è un sentimento di perdita e spaesamento, ma è anche – ed è il caso del film di Michell- una storia d’amore con la propria fantasia”.
