Bones and All

Allora, che sia una storia di giovani cannibali penso si sappia. Forse l’unica a non esserne al corrente era una compagna di scuola della bella Maren che partecipa con lei ad un pigiama party ed ha la sventatezza di lasciarle succhiare un dito per trovarselo poi sbranato e penzolante dall’articolazione dopo il ghiotto morso dell’amica. Il padre, quando Maren serafica torna a casa, capisce che non è aria e arraffa quello che può per una nuova fuga salvo poi, venuti a compimento i doveri genitoriali allo scoccare dei 18 anni della ragazza, ragionevolmente abbandonarla. A Maren non resta così che compiere la missione dei giovani americani dai tempi di Henry David Toureau: mettersi in cammino seguendo il proprio cuore e, nel caso di Maren con il pretesto di ritrovare la madre, andare alla ricerca di se stessi, in un coming age costellato dai consueti incontri con facilitatori e oppositori che talvolta si incarnano nelle stesse persone, come Sully, un tipo poco raccomandabile (impeccabile Mark Rylance nella parte) che inizia Maren alle leggi non scritte dei “mangiatori”, tribù sotterranea di antropofagi, come che fra cannibali ci si riconosce dall’odore o che cane non mangia cane, un mangiatore non diventa pasto per un collega. Ma insomma, vi fidereste voi di un cannibale? Vagando alla deriva per il Midwest, Maren si imbatte poi in un dandy post-punk e pre-grunge e, fra  orizzonti infiniti e squallidi motel , approfondisce l’iniziazione al cannibalismo, scoprendo l’amore. Siamo nell’America degli anni ’80, gli anni dell’edonismo règaniano e dei veri cannibali: yuppie rampanti e finanzieri spregiudicati, un decennio che in nome di un iper individualismo sprezzantemente egoistico e narcisista si pascerà delle conquiste sociali e dello spirito di solidarietà degli anni precedenti, il tempo in cui l’affacciarsi dell’AiDS suonerà le campane a morto sulle utopie del libero amore, annunciando l’avvento di un nuovo moralismo conformista proprio quando i giovani protagonisti del film si proiettano voracemente verso la vita, ma, anche se questi temi sociali restano sullo sfondo, l’operazione di Guadagnino appare, a suo modo, più astratta e formale. Al regista sembra più interessante lavorare sulla natura ossimorica del film, coniugando horror e romanticismo (che è  poi tornare alle origini del gotico) evocando una sanguinaria tenerezza nell’ambito di una contaminazione fra generi che ricorda certi procedimenti surrealisti. Si combinano così sequenze del tutto convenzionali all’interno del loro genere di appartenenza, ma fra loro radicalmente stridenti  (squartamenti con esposizione di viscere fumanti e sguardi incrociati e sognanti fra due giovani innamorati sullo sfondo di splendidi cieli violacei) e si guarda l’effetto che fa. La forza di questa associazione non sta tanto nel valore e nel senso specifico di ciascuna sezione, ma nella loro combinazione spiazzante ed enigmatica. Lo stesso meccanismo, mi verrebbe da dire, presiede all’alchimia, incredibilmente riuscita, che lega i due protagonisti: tanto è toccante e intensa l’interpretazione di Taylor Russel nel ruolo di Maren tanto Timothee Chalamet è bravo nel fare la cosa che gli riesce meglio, sia che baci perplesso una ragazza sotto la pioggia di New York, sia che passeggi meditabondo fra le sabbie di un pianeta alieno o sfili altero sul red carpet al Lido di Venezia, cioè fare Timothee Chalamet.  Non si può negare però che il risultato non abbia una certa potenza espressiva, celebrata oltremodo dalla critica, anche se l’efficacia della metafora surrealista stava nella istantaneità immediata della scintilla che faceva scaturire, mentre il film di Guadagnino protrae per oltre due ore l’operazione, esplorando tutti i possibili risvolti della associazione e rischiando di generare, impressione lo riconosco totalmente soggettiva, un senso di artificiosità non disgiunto da una certa noia (ecco sì, l’ho detto).

Eppure… Eppure anche se sappiamo benissimo che le carni dilaniate sono appendici in silicone inondate di succo di pomodoro (o qualcosa di affine) e nonostante questo non possiamo non provare disgusto, raccapriccio e orrore, così possiamo anche ripèterci, guardando i cieli infiniti, le penombre ovattate e le luci radenti di un America ordinaria e selvaggia che è tutto immaginario cinematografico, un mescolarsi di atmosfere ed effetti cannibalizzati da Badlands di Terence Malick o American Honey di Andrea Arnold o da molti altri road movie americani, ma ugualmente, almeno a tratti, è difficile non immedesimarsi in questa storia d’amore, mille volte già raccontata. Sappiamo che tutto è artificio, eppure qualcosa si smuove quando riconosciamo quello stato d’animo che ciascuno di noi ha provato, almeno una volta nella propria giovinezza (lo spero quanto meno per voi), di essere totalmente diverso dagli altri, di sentirsi abbandonato ai margini e di  covare così il proprio risentimento contro il mondo (“Como abrazado a un rencor”), nell’illusione di poter trovare finalmente qualcuno in cui vedere rispecchiate la propria rabbia e la propria voglia di vivere.

E questo è il cinema, signori.

 

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