Roberto Mariani non si è schiantato contro un camion durante un sorpasso (cfr. Il Sorpasso, Dino Risi). Adesso si chiama Giulio e studia architettura a Venezia. È rimasto timido e imbranato ed è segretamente innamorato di una sua compagna di corso che gli preferisce però un più performante cocainomane e così viene prelevato da due bizzarri furfanti e ricomincia un on the road ad alto tasso alcolico su una vecchia Jaguar rabberciata per un veneto degradato e coatto tutto villette geometrili, fabbrichette, stabili abbandonati, laide osterie e capannoni trasformati in sale da ballo country. La meta, prevedibilmente, non è il miraggio della raffinatezza zen della tomba Brion di Scarpa ad Altivole, ma la formazione di Giulio che questa volta la scampa e convola (fuoricampo) con la sua bella, raggiungendola in treno, mentre un lungo carrello riprende la corsa delle carrozze affiancate dalla Jaguar dei due loschi figuri festanti, nell’ennesima citazione questa volta dal bellissimo finale di Heimat 2 (non a caso “Cronaca di una giovinezza”).
Immerso in una luce livida e appannata (molto bella la fotografia di Massimiliano Kuveiller) che rende bene l’idea di una pianura scialba, anti pittoresca dove però non si vedono città, ma solo paesunculi senza storia dimenticati da Dio, il film di Sossai è digressivo e rapsodico, tutto giocato sulla posticipazione: dell’ultimo bicchiere, del momento in cui Giulio si libererà dei suoi invadenti pigmalioni e dell’ingresso nell’età della ragione di Doriano e Carlobianchi, passati da adolescenti a vecchi senza mai essere diventati adulti (grotteschi e sfacciati al punto giusto Pierpaolo Capovilla e Sergio Romano, un po’ più spento, ma lo esige anche il personaggio saputello, Filippo Scotti nella parte di Giulio). I due strampalati Virgilio, più simili, in vero, al Gatto e alla Volpe, guide per Giulio nell’inferno di un “Veneto barbaro”, un illimitato non-luogo anonimo, riconoscibilissimo però per gli indigeni, sono la perfetta reincarnazione di due Zanni della Commedia dell’Arte, come i loro antecedenti sono grezzi e ruspanti, assieme scaltri e cinici, ribelli e irrimediabilmente pigri, astrusamente ingegnosi e per partito preso nullafacenti. I primi piani che insistono con effetti di barrel distortion sui volti dei due balordi, deformandone i contorni, esagerando, come lo sguardo di Gulliver a Brobdingnag, le rughe, le imperfezioni, le macchie e l’oleosità della pelle li fanno assomigliare a caricaturali personaggi dei fumetti, esaltandone la natura di trickster, agenti del caos, in questo caso indolente per specificità geografica dei due balordi, personaggi emarginati e liminari che vivono negli interstizi della società, moralmente, ma anche sessualmente, ambigui (si veda la scena di Carlobianchi con il conte) esprimono attraverso la loro trasgressione accidiosa quegli aspetti pulsionali, egoistici, cialtroneschi ed eccedenti che il moralismo intellettualistico e un po’ bacchettone di Giulio aveva rimosso, ma che devono essere consapevolmente assunti – e si spera controllati – nella sua personalità per raggiungere una formazione pienamente compiuta.
Declinazione padana del tema universale del viaggio iniziatico e dell’incontro dell’eroe con la propria ombra, costruito su una trama esilissima – pure qui la posticipazione dell’incontro di Arlecchino e Brighella con un loro compare di truffe – che serve a tenere assieme una serie di bozzetti e sketch, alcuni più riusciti, altri meno, il film di Sossai gioca con gli stereotipi (rimanendone però a volte un po’ prigioniero) e diverte (abbastanza), anche se non ci abbandona mai l’idea di assistere ad una trasposizione veneta di un film di Jarmush d’annata con le musiche di Krano al post di Tom Waits. E va a merito del giovane cantautore veneto che – fatte le debite proporzioni – il confronto regga.