Immaginate un film della Bigelow, con queste corse vertiginose che fanno scoppiare il cuore anche allo spettatore più rilassato. Aggiungetevi l’ansia montante di una pellicola di Don Siegel, un montaggio con accelerazioni alla Lou Lombardo nel Mucchio selvaggio di Peckinpah e poi la musica ossessiva che scandisce le sequenze iniziali di Lola Rent (un’altra che se ne intendeva di corse). Ecco, allora avrete un’idea del ritmo del film di Éric Gravel, solo che la corsa contro il tempo non è qui quella dell’ispettore Callagan che deve salvare la città dal pazzo dinamitardo di turno, ma quella di una rispettabile signora (una bravissima Laure Calamy) di un dignitoso ceto medio, villetta con giardino in una tranquilla cittadina della cintura parigina, buoni studi, un posto di lavoro, nel passato, gratificante, solo che la crisi e il divorzio la stanno ora precipitando nel gorgo del declassamento, via sulla china della povertà. Julie deve così mettere assieme gli impegni di madre amorevole, un lavoro da capo cameriera in un hotel parigino di lusso, la ricerca di un nuovo posto di lavoro più corrispondente alle sue qualifiche, alle sue competenze e alle sue ambizioni con lo scenario di agitazioni e turbolenze di una Francia lacerata dai conflitti sociali. E questo richiamo non è un semplice espediente narrativo per giustificare i ritardi e la febbrile ansia della protagonista, sempre in affanno, sempre angosciata di non riuscire a far fronte alle incombenze che la schiacciano, ma indica una contraddizione più profonda. In una società dei servizi, nome ambiguo che sembrerebbe indicare il superamento del lavoro alienante dell’operaio, sostituito però con la professionalità della bonne che deve pulire asetticamente “la merda dei ricchi”, l’orizzonte della lotta di classe è solo in apparenza verticale. Di fatto è sempre orizzontale: i sindacati dei ferrovieri protestano contro il governo dei padroni, ma lasciano a piedi i pendolari, i Gilets Jaunes credono di attaccare il cuore del potere occulto delle banche, dei massoni, delle burocrazie di Bruxelles, ma rovinano solo la vita ai poveri diavoli che non riescono a raggiungere il loro posto d’impiego. Conflitto controproducente, moltiplicatore del rancore e funzionale al dominio perché, mentre lascia le cose esattamente come sono, erode ogni possibile condivisione dal basso diluendola fino a farla scomparire nell’astio reciproco. Ne è un esempio evidente il microcosmo dell’Hotel di Julie dove lo spazio della solidarietà di classe è sgretolato dalle invidie reciproche e da microfisici abusi di potere perché anche nella società competitiva del “h24” vale l’antico detto: mors tua, vita mea. Ciascuno, seppur sfruttato, cerca di far valere il suo piccolo quoziente di potere – un ruolo di supervisore, una maggiore anzianità di servizio – per ottenere vantaggi a discapito degli altri in un frenetico conflitto trasversale che si estende a tutto il tessuto sociale e dove la posta in palio sembra essere sempre di più il tempo, un tempo colonizzato anche nei suoi recessi più riposti, non solo dallo sfruttamento, ma anche da una assillante auto-programmazione che è l’indice stesso di una interiorizzazione del dominio con le su tentacolari relazioni di potere, tanto che anche l’anziana e benevola baby sitter dei figli di Julie minaccia la donna di allertare i servizi sociali se Julie non riesce ad essere più puntuale con i suoi figli, esercitando, anche lei e suo malgrado, una forma di sopraffazione indiretta sulla donna. G. Simmel, ancora agli inizi del secolo scorso, indicava una delle maggiori fonti di stress della modernità nella necessità di sincronizzare tutti i diversi impegni a cui siamo progressivamente assoggettati. Gravel ci mostra che, un secolo dopo, il meccanismo è esploso: in una società che pomposamente si vuole dei diritti, abbiamo definitivamente abdicato al diritto più importante. Al diritto al nostro tempo.
(Attenzione Spoiler!!! non andare oltre se non si vuole sapere come finisce il film)
Il film ha un lieto fine che però solo in apparenza potrebbe sembrare rassicurante. Dopo aver evocato attraverso un paio di richiami incrociati la tragica sorte di Anna Karenina, inaspettata ed improbabile arriva la salvezza: Julie riceve una telefonata che le annuncia il nuovo posto di lavoro per cui si era battuta e di cui ormai disperava. È in un parco giochi dove, ormai licenziata, aveva accompagnato i figli, investendo i soldi del loro salvadanaio. Alle sue spalle, anacronistico, un polipo giostra alza e abbassa i suoi tentacoli. Julie piange di gioia, l’atmosfera potrebbe apparire ipocritamente felice. Almeno per un attimo. Ma è solo un illusione. È semplicemente l’inizio di un nuovo giro di giostra.
