Racconto di due stagioni

Una figura indistinta nel paesaggio bianco immacolato avanza lentissima in una tormenta di neve. I suoi contorni, in un tempo cinematografico dilatato e ipnotico, si fanno, mano a mano più definiti mentre si avvicina nello scricchiolio sordo dei suoi passi sul manto bianco.

Inizia con un deja vu, che rinvia all’ambientazione e alle atmosfere di suoi vecchi film, Il Regno d’inverno e C’era una volta in Anatolia, l’ultimo film di Ceylan, quasi a riprendere un discorso appena interrotto, ma sempre aperto sulle profondità contradditorie dell’animo umano e sulla sua solitudine inestirpabile.

L’uomo che abbiamo visto, Samet (Deniz Celiloglu, il volto e il fisico ordinari da eroe checoviano, che riesce a rendere perfettamente la personalità sfuggente del protagonista del film) è un professore d’arte che torna dopo un periodo di vacanza nello sperduto villaggio dell’est curdo del paese dove vive in una sorta di confino, sperando di poter, prima o poi, tornare nella civiltà della grande metropoli ad Istambul. Samet, seppur socievole e disponibile alla battuta e al dialogo con i colleghi e con i conoscenti del posto – il capo della polizia locale; un losco negoziante che sembra implicato con traffici non del tutto chiari – nasconde dietro l’ironia bonaria e i modi un po’ ruvidi, un distacco blasé, un senso di superiorità che traspare nella noia in cui placidamente inacidisce. Veniamo a sapere che Samet ha smesso di dipingere, ora fissa in istantanee di gran fascino la bellezza remota di sconfinati paesaggi immobili, dove emerge in primo piano la carica espressiva dei volti anonimi della gente del luogo, su cui il professore sembra proiettare la sua solitudine. D’altra parte, a Samet piace piacere e coltiva la sua immagine di composto anticonformista, rispetto ai colleghi provinciali. Si è ritagliato in una sorta di sgabuzzino un piccolo ufficio dove riceve i suoi studenti con cui intrattiene rapporti informali. Ma se con la sua classe Samet si diverte a fare l’istrione, con Sevim, una ragazzina di un’adorabile ed ambigua ingenuità, Samet coltiva relazioni fin troppo amichevoli, condite da piccoli regali e interessati consigli di lettura, al limite del plagio e della scoperta seduzione. Non stupisce molto, quindi, che giunga alle autorità scolastiche un’accusa, che coinvolge anche il docente compagno di appartamento di Samet, di comportamenti inappropriati nei confronti degli alunni. Appena un po’ più sorprendente è che la denuncia arrivi dalla stessa studentessa. Nonostante, l’amministrazione insabbi rapidamente il caso, la reazione di Samet è indignata, e potrebbe essere comprensibile, ma non è certo equilibrata e la replica rancorosa, che riversa il suo risentimento sugli studenti e la sua rabbia sulla ragazzina in particolare, non è solo indice di immaturità emotiva, ma anche di una coscienza non proprio limpidissima e di un orgoglio supponente ferito.

La denuncia costituisce un momento di svolta nella narrazione. Fino a questa cesura, l’immensità desolata dei paesaggi muti, che faceva da sfondo alla vicenda, aveva accentuato il senso di claustrofobia degli spazi angusti in cui erano relegati i personaggi, quasi intorpiditi dalla rigidità austera dell’ambiente. Da questo punto in poi, senza apparente soluzione di continuità, lo sviluppo della vicenda si dinamizza e l’assolutezza estrema dei colori e della luce, il bianco accecante degli scenari innevati e poi il giallo aspro delle pianure secche dell’estate, diventa contraltare al chiaro scuro soffuso dell’interiorità dei personaggi. Come avevamo visto l’immagine di Samet emergere e comporsi dall’indistinto nelle prime inquadrature, così la complessità del suo carattere si dispiega per successive rivelazioni. All’occhio indagatore di Ceylan non interessa soltanto fare affiorare quei lati oscuri della figura del suo protagonista, che erano inizialmente appena accennati, quanto mostrare come bene e male siano indissolubilmente legati assieme. Mentre la narrazione si sposta verso l’intricata relazione triangolare che si stringerà fra Samet e il suo compagno di appartamento, il sincero e un po’ naif Kenan, con una giovane e bella insegnante, Nuray (una straordinaria Merve Dizdar) devastata dalla vita e mutilata dalle conseguenze di un attentato che l’ha costretta all’amputazione di una gamba, iniziamo a percepire come l’indulgente ironia, il distacco compassato con cui Samet si relazionava agli altri, nasconda un fondo livido di invidia, gelosia, astio;  il suo trattenuto, ma evidente sentimento di autostima, celi un senso di inadeguatezza che si esprime in un insinuante desiderio mimetico. Non appena Samet si accorge che la bella Nuray che, condiscendente aveva presentato all’amico, sembra non solo preferirgli Kenan, ma facendolo scopra anche in lui aspetti e sentimenti elevati che lui stesso vorrebbe esprimere (una impalpabile e sofferta malinconia), immediatamente si ingegna per conquistarla e ristabilire la sua superiorità posta in discussione. La lunghissima sequenza della cena fra Nuray e Samet, con l’uomo che ha volutamente escluso Kenan, all’insaputa della giovane, per aver campo libero, rappresenta l’apice drammatico della vicenda. Ancora una volta, come spesso è accaduto nel film, il contenuto manifesto di ciò su cui vivacemente si discute non ha nulla a che fare con le dinamiche interpersonali che entrano in gioco. Per quasi mezz’ora si dibatte e polemizza su questioni politiche, si confronta il disincantato individualismo di Samet, con l’idealismo utopico e solidale di Nuray in un gioco di ruolo dove la sincerità autentica ed appassionata della donna si scontra con il disincanto di Samet che simula una schiettezza aperta e conflittuale nei confronti dell’amica per dissimulare la sua velata opera di seduzione. La sequenza, anche questa interminabile per i tempi cinematografici, è filmata in modo avvolgente, alternando fluidi campo controcampo, con articolati piani sequenza, espedienti tecnici che trasmettono un effetto partecipato di realtà fino a quando, con uno spiazzante colpo di scena che scopre le carte, le immagini si fissano, nel silenzio improvvisamente calato, in un nuovo e, in questo caso, del tutto innaturale campo/contro campo che svela la presenza della macchina da presa mentre da una posizione sopraelevata, incongrua, dietro le spalle di Nuray, inquadra la nuca della giovane e il volto di Samet. Ed una lieve e impossibile brezza scaturita dal nulla muove i capelli della ragazza. È uno stacco che rovescia le posizioni: la disillusione scivola dalla parte di Nuray che incurante delle macchinazioni dell’uomo, che già aveva intuito, confessa silenziosa la sua fragilità, la sua solitudine, la sua “stanchezza della speranza”, il suo bisogno di aver il corpo di un uomo vicino, rivelando però anche in un attimo tutto l’intento manipolatore e la calcolatrice mediocrità di Samet. Con molto pudore utilizzo queste parole: è un momento di intensa, dolente poesia, che però, in modo abbastanza sbalorditivo, Ceylan disdice immediatamente, sfondando la quarta parete. Con un ulteriore salto di spaesamento brechtiano, Samet esce dalla scena per ritrovarsi dietro le quinte, come se Ceylan volesse, mosso da un’urgenza di onestà intellettuale radicale, mettere in guardia lo spettatore, in una inquietante mise en abîme, oltre che dalle manovre d’adescamento del professore, dalle seduzioni che la sua stessa messa in scena aveva posto in atto. In un film denso, sconfinato, polimorfo, pur nella sua compatta e inflessibile unità stilistica, non sono sicuro che questa scelta, a suo modo rigorosa e coerente, sia completamente riuscita. Molto più efficace invece appare il finale che, con una conclusione speculare, si richiama alla sequenza iniziale. Alla neve illimitata delle prime scene si è sostituita l’arida pianura dell’estate. Samet, Kenan e Nuray stanno visitando in una località sperduta delle rovine ittite. Mentre il ragazzo e la giovane professoressa si fermano a contemplare enormi volti impassibili in pietra fra le colonne imponenti di un antico tempio, Samet si allontana, isolandosi e inerpicandosi per una collina. La sua voce fuoricampo ci rivela il suo stato d’animo che trova il suo correlativo oggettivo nelle erbe, dissecate dal sole, (Les herbes seches del titolo originale), che schiaccia con i suoi passi: solitudine, insoddisfazione, amarezza, che si fondono con le immagini della bellezza vaga e del candore inquieto e inquietante di Sevim, seria ed enigmatica nel pulviscolo di brillanti di neve nei ricordi dell’uomo. Ma siamo sicuri di assistere all’espressione di sentimenti sinceri, o siamo solo davanti ad una compiaciuta autocommiserazione (e autoassoluzione)? La letterarietà accentuata delle parole che ascoltiamo, la ricercata poesia delle immagini del ricordo si impastano indissolubilmente con la meschinità arida che conosciamo del personaggio, uscendone in un qualche modo contaminate. Meschinità che però, Ceylan ci ricorda, è umana (fin) troppo umana.

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