Shiva Baby

Cosa c’è di peggio per Danielle, una diciottenne incasinata e perplessa circa la propria esistenza e la propria identità sessuale, di andare ad uno Shiva (una commemorazione funebre ebraica) dove l’aspettano al varco una legione di cariatidi amorevoli, pronte a chiederle ragione della sua situazione sentimentale e dei suoi fallimenti? Trovare allo stesso Shiva la propria ex-fidanzata, con cui ha da poco rotto in modo devastante, e un cliente di una chat di appuntamenti con cui ha scopato il mattino e nei confronti di cui pare essersi presa anche una cotterella. Meglio poi se Max, il bellimbusto di cui sopra, è accompagnato dalla deliziosa figlioletta urlante e soprattutto dalla moglie che sembra la sosia di Cameron Diaz e sul prezzo è anche una imprenditrice di successo, giusto per non far pesare gli insuccessi e l’ondivaga ricerca di una propria strada alla ragazza. Tutto girato fra intricati e asfissianti piani sequenza nell’appartamento affollato dove si tiene la cerimonia e primi piani insistiti e crudeli sui volti devastati delle mummie, parenti della ragazza, alternati al viso sperduto ed esasperato di Danielle, il film impasta fastidio ed ansia, imbarazzo e livore, umiliazione e sarcasmo procedendo lungo il crinale fra il grottesco e la freddezza documentaria. Il meccanismo narrativo, classicamente articolato in una commedia degli equivoci, gioca sui diversi livelli di consapevolezza che i personaggi hanno del castello di bugie che Danielle ha affastellato per proteggersi dal mondo. C’è chi ne ha ovvia coscienza, come Danielle e il suo Sugar Daddy (se non siete, come non lo ero io, edotti sul fenomeno cercate su Wikipedia Sugar dating), chi l’acquisisce a poco a poco come Maya, l’ex fidanzata, e Kim, la moglie di Max, chi, la madre di Danielle, lo intuisce appena e proprio per questo cerca di rimuoverne con spavento l’evidenza e chi infine, ad onta di ogni indizio sempre più lampante, rimane beatamente e beotamente cieco, come il padre della ragazza. Il passaggio da uno stadio all’altro dei diversi soggetti, ritmato dalle piccole catastrofi a cui va incontro la ragazza durante la tragicocomica riunione di famiglia, e il corto circuito fra i differenti livelli incomunicanti fra loro, ha effetti, a seconda del mood con cui si affronta il film, esilaranti o insopportabilmente ansiogeni, ma assieme non può che accentuare l’empatia per Danielle (nota di merito per Rachel Sennot, tanto imbranata, sconfortata, fuori luogo da risultare adorabile). Verrebbe quasi da saltar su dal divano (e sì, perché purtroppo questo buffo ed amaro film di Emma Seligman si può vedere solo in piattaforma) e urlare a Danielle di andarsene, di lasciarsi alle spalle quel covo di affettuose e peggio inconsapevoli vipere e riprendersi la sua vita. Invece, come prevedibile, la ragazza, prigioniera suo malgrado delle convenzioni e del suo ribellismo abortito, fa sempre più le cose sbagliate al momento sbagliato, complice anche il destino cinico e baro e la diabolica predisposizione degli smartphone di smarrirsi nei luoghi meno opportuni. Per cui, mentre rassegnati e perversamente divertiti assistiamo all’ultima abnorme gaffe del padre di Danielle, l’allacciarsi un po’ timido delle mani di due giovani ragazze in un van, carico come un’arca di astio, rancore e gretta incoscienza, è una boccata di ossigeno, e chi se ne frega se poi questo comporta un piccolo cedimento sentimentale rispetto al registro nevroticamente cinico del film. C’è vita oltre lo Shiva.

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