Asteroid City

E se fosse il dolore?
Wes Anderson sembra ripartire esattamente da dove l’avevamo lasciato. Come sempre completamente diverso per rimanere uguale a sé stesso. Lì erano le scatole cinesi degli articoli di una rivista americana sull’orlo della chiusura che ci catapultavano in un mondo da cartolina sbucato fuori da una canzone di Charles Trenet,  gremito di personaggi e traboccante di parole, colori e chiaroscuri dove tutto si contorceva e aggrovigliava per non portare felicemente da nessuna parte. Qui siamo dietro le quinte di una produzione teatrale di cui dovremo seguire, immersi in un bianco e nero sbiadito come i filmati televisivi d’epoca, le vicende di produzione, per entrare poi nella reale finzione o nella finta realtà dell’immaginario dai colori pastello di Anderson: una cittadina americana degli anni ’50, sperduta nel nulla del deserto di Willy il coyote e Beep Beep (il primo non pervenuto, il secondo effettivamente danzante sui titoli di coda). La saturazione affastellata delle inquadrature di Ennui sur Blasé, il favolistico borgo francese raccontato in French Dispatch, si prosciuga nei fondali di cartone del deserto da fumetto retrò di Asteroid city dove sullo sfondo si alzano più buffi che inquietanti i funghi atomici degli esperimenti nucleari. Anche se la città è tagliata da un’unica strada dove ciclicamente poliziotti inseguono criminali in fuga e sullo sfondo incombe la linea retta dell’orizzonte del deserto, come in un posticcio fondale teatrale, il cerchio o l’elisse sono le figure centrali della messa in scena. Circolari sono le riprese che ci mostrano in panoramiche rotanti bungalow, stazioni di servizio, drive in e installazioni scientifiche della cittadina, ellissoidale è il grande cratere che dà il nome al luogo, sferico il piccolo e bitorzoluto asteroide che nel remoto passato scavò nel deserto l’enorme cavità. Ellittica poi, come sempre, la narrazione che, a partire dalla mise en abîme del racconto dentro il racconto, si snoda e si frammenta in sottotesti e divagazioni, trame accessorie, sentieri interrotti e scorciatoie inconcludenti. Nella cittadina si tiene ogni anno un convegno in cui si riuniscono i genietti delle scuole americane per presentare le loro improbabili invenzioni (raggi della morte, jet a zainetto e altre diavolerie simili). Augie (Jason Schwartzman), un imperturbabile fotografo di guerra accompagna, assieme alle figliolette, versione scuola d’infanzia delle streghe di Macbeth, il figlio Woodrow alla competizione. In un contenitore tupperware conserva le ceneri della moglie la cui morte riesce solo a confessare a stento alla prole. Lì incontra la star del cinema Midge Campbell (Scarlett Johansson, gelida e remota come una cometa di ghiaccio) madre di Dinah, altra testa d’uovo che presenta la sua invenzione al concorso. Come sempre nei film di Anderson, gli adolescenti, in versione rigorosamente antiglamour con i loro volti spigolosi e i chili in sovrappeso, sono più assennati, lucidi e melanconici dei grandi, sempre invece intempestivi, spesso arruffoni, per lo più assenti e visibilmente in preda al tedium vitae. È questo che traspare dai vacui dialoghi fra Augie e Midge, ciascuno come in un tableau vivant incorniciato nel riquadro della finestra del proprio bungalow: riprese frontali, sguardo in macchina nel più tradizionale stile di Anderson, alternate, secondo un ritmo scandito, quasi musicale, da inquadrature laterali che sottolineano una distanza contenuta fra i due, ma inattraversabile. Poi il giorno della premiazione dei ragazzi accade l’evento. Un alieno, nella costernazione generale, giunge, trafuga l’asteroide per poi scomparire nel cosmo. La cittadina e i suoi squinternati abitanti saranno confinati in un doppio isolamento (qualcuno c’ha visto anche una metafora del covid, boh…) perché allo scadere della prima quarantena l’alieno ritorna per riconsegnare gentilmente il maltolto, innescando un’altra chiusura del centro e una conseguente rivolta dei reclusi. Nel mezzo i personaggi vanno e vengono tra la luce fredda del deserto e i suoi scenari artefatti e il bianco e nero delle quinte dello spettacolo teatrale, mentre il presentatore della trasmissione televisiva si perde fra le due dimensioni. E sia i ragazzini che gli scienziati, il regista e lo scrittore della pièce continuano a ripetersi la domanda che assilla per lo più gli spettatori di Anderson. Cui prodest? Qual è il significato di tutto questo?
Ed è interessante che Anderson faccia emergere esplicitamente questo interrogativo che è sempre rimasto come un non detto – a seconda dei punti di vista, dei pochi denigratori e dei molti cultori del regista dandy – irritante oppure irrilevante all’interno di tutto il suo cinema. Domanda che può tradursi in una questione ancora più stringente. Che cosa c’è al di sotto della superficie patinata, traslucida, esteticamente smagliante del suo cinema. E potrebbe già essere una risposta convincente e, perché no, appagante: nulla.
Eppure, più che in altri film, sembra apparire in Asteroid city qualcosa di diverso. Alla fine del racconto le tre bimbe streghette decidono di seppellire con una cerimonia tra il magico e la cantilena infantile il tupperware con le ceneri della madre nella sabbia del deserto, sullo sfondo delle pareti rugose del cratere che con la sua scheggia spaziale era stato il centro di gravitazione delle strampalate avventure dei protagonisti. Mentre, poco prima, Augie, in una delle sue libere uscite dal deserto fra le quinte teatrali, aveva incontrato, anche qui separato dallo spazio inattraversabile di due terrazzi speculari, l’attrice (Margot Robbie) che avrebbe dovuto interpretare sua moglie nello spettacolo e nel mezzo di una nevicata notturna, tanto romantica quanto smaccatamente posticcia, aveva recitato assieme a lei le battute del loro addio, non a caso prudentemente tagliate dal copione finale. E quindi: e se fosse il dolore? Se fosse il dolore il grande assente che però consapevolmente inquieta le felici simmetrie del cinema di Anderson, il grande rimosso, dai suoi scenari confetto, dalla sua realtà riposante e manierata? Se fosse il dolore il contenuto nascosto dell’impassibilità dei suoi personaggi, se la loro stralunata atarassia fosse solo un composto argine ai loro sentimenti? Ad esempio, alla sofferenza per la perdita della propria compagna di una vita o della propria madre. Oppure, più semplicemente, al male di vivere.
Ma non preoccupatevi, è solo un’ipotesi, probabilmente peregrina. Ci si può sempre rifugiare nella superficie inalterata e perfetta dei fondali ridondanti e dei pop up di Anderson, anche perché il regista si ingegna di continuo nel sabotare con ironia, leggerezza e perché no, ritroso pudore, ogni conclusione ultimativa. Ma solo formulare questa ipotesi permette di ricoprire le splendenti architetture rococò-postmodern del cinema di Anderson di un velo di impalpabile malinconia.

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