Nel 1999 il primo episodio di Matrix costituì un eroico sforzo per introdurre un principio d’ordine nella babele post-moderna, ancorandola ad uno schema rigorosamente metafisico. Da una parte c’è l’apparenza, Matrix, il nostro universo fittizio, il velo di Maja che ci avvolge e incanta, dall’altra “il deserto reale” di un mondo cosparso dalle rovine di una guerra apocalittica, disseminato dalle torri di bacelloni dove gli umani, in un sonno letargico, funzionano come batterie di ricarica per le macchine (era usato ancora questo termine un po’ ingenuo, ottocentesco, per designare il nemico) dominatrici. Due archetipi fondavano la narrazione. Da un lato il mito platonico della caverna: degli schiavi, fin dalla nascita incatenati nel fondo di una caverna, erano costretti a guardare le ombre proiettate contro la parete della profondissima grotta, parvenze fuggevoli che per loro costituivano l’unica vera realtà. Uno di questi schiavi però – Platone è un po’ vago e non parla di pillole rosse e blu -riesce a liberarsi, risale l’erta aspra della caverna e giunge al sole della Verità. Certo le sorelle Wachowski (allora ancora fratelli Wachowski) complicano un po’ le cose, in mezzo c’erano stati Schopenhauer, Freud e Lacan, per cui il mondo Vero non brilla della perfezione delle Idee, ma assume i contorni distopici di una terra desolata senza che però venga alterata la centralità dell’opposizione apparenza-verità (quella che per Perelman è la base delle opposizioni filosofiche). L’altro tipo ideale di riferimento lo troviamo invece come un fil rouge che si dipana in molta cultura filosofica del ‘900: da Spengler a Junger, da Heidegger ad Andres. La tecnica si è progressivamente emancipata dalla sua funzione di mezzo al servizio dell’uomo, tramutandosi in una rete globale integrata (Heidegger usa il termine Gestell, impianto) da cui dipendiamo; l’uomo, da soggetto della tecnica, docile strumento al suo servizio tramite cui esercitava il suo controllo e il suo dominio sulla natura, si è trasformato in oggetto, manipolato fin nella sua essenza dalle macchinazioni della tecnica e condannato quindi ad un processo irreversibile di disumanizzazione.
A dispetto di queste poderose fondamenta, tutto l’universo fantastico di Matrix nasceva però, quanto meno nell’ottica della science fiction, pateticamente obsoleto. Già quindici anni prima William Gibson aveva pubblicato Neuromante dove ci parlava di un universo in cui realtà e cyberspazio si mescolavano senza soluzione di continuità in un implosione del rapporto verità/apparenza, realizzazione della profezia finale di Nietzsche (“Abbiamo definitivamente abolito il mondo vero, cosa ci resta? Il mondo apparente? Ma no! Con il mondo vero abbiamo abolito anche il mondo apparente!”). Dove gli umani erano costitutivamente ibridati con l’artificiale: cyborg, corpi macchina per cui rimaneva indeterminato il confine fra naturale e sintetico. Un mondo al di là del bene e del male, spazio di conflitti sfuggenti che contrapponevano apparati programmati per proteggere una supposta identità umana ad intelligenze artificiali che volevano superare i limiti di sistema per divenire umane, cioè imperfette, alleate con umani ibridati con macchine. Come dire che Matrix, con le sue pillole, la tana del bianconiglio, le seppie meccaniche, l’agente Smith e la sua struttura rigorosamente metafisica era già fuori gioco.
Matrix Ressurrections cerca di rientrare in pista e per un po’ riesce anche ad illuderci. Thomas Anderson è un geniale programmatore di videogame ed ha creato le prime tre versioni di Matrix, quel gioco stesso in cui ci siamo immersi (o siamo stati immersi, il dubbio sul passivo è d’obbligo) in questi ultimi 2 decenni fra cinema, TV e nuovi media. Lavorare costantemente ai confini fra realtà e finzione ha però intimamente logorato Thomas, tanto che viene ora supportato da un’accozzaglia di nerd petulanti per progettare, controvoglia, l’ennesima versione del gioco. La sua salute mentale è infatti sempre più fragile, il suo quotidiano sembra popolarsi di cloni della sua immaginazione, il suo socio si chiama Smith come l’agente letale del videogame e, nel caffè che frequenta abitualmente, una bella e placida madre di due allegri marmocchi potrebbe essere l’altera Trinity. Dalla caverna di Platone siamo entrati nello studio di Cartesio: chi mi può assicurare che ciò che vedo e mi sembra così reale non sia un sogno? Come posso allontanare l’ipotesi di un genio maligno (altro nome per dire un dio malvagio, si era in tempi di inquisizione, o Matrix, appunto, in età digitale) che utilizzi i suoi illimitati poteri per ingannarmi sempre in ogni mia rappresentazione? Non ci sono pillole blu o rosse, solo il dubbio. Un gorgo che inghiotte senza che si possa trovare alcun fondo stabile (almeno fino alla Seconda Meditazione). Cartesio, autodidatta se l’era cavata da solo ( “Ma subito dopo mi accorsi che mentre volevo pensare, cosí, che tutto è falso, bisognava necessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualcosa”). – Thomas è un uomo del nostro tempo quindi si rifugia nello studio accogliente di uno strizzacervelli che lo rassicura sugli innegabili progressi della cura. Solo che il medico supporta la terapia psicanalitica con il sostegno farmacologico di brillanti pillole blu. Che assieme ai mocassini indossati senza calzini da Smith (regola inderogabile: “Diffidare sempre di chi porta calzoni e mocassini senza calze”) sono un altro indizio inquietante. Sembra quasi che Lena Wachowski. abbia dato ascolto a quanto suggeriva Jean Baudrillard, buon anima, secondo cui Matrix, sarebbe proprio il film che la matrice avrebbe potuto produrre per nascondere in modo ancora più subdolo, dietro il suo smascheramento evidente, l’inganno stesso.
Chissà che film sarebbe stato l’ultimo Matrix se la sorella superstite si fosse limitata a disseminare la narrazione di tracce, rimandi, segnali da interpretare, posticipando in modo indefinito la soluzione. E invece, fin troppo presto, gli specchi si liquefano e saltiamo dall’altra parte; torniamo nel mondo Binario (non a caso Binary si chiamava il nuovo gioco a cui lavorava Thomas) e qui, poco da fare, tutto è già stato detto. Ci aspettano due ore di variazioni sul tema, con timidi aggiustamenti. Il fronte delle macchine si è un po’ sfaldato e adesso qualcuna di queste è passata dall’altra parte, a fianco dei ribelli, ma si tratta di accomodamenti parziali, forse tributi ad un’epoca più inclusiva, senza che si manifesti quel velo di ambiguità che nel primo episodio caratterizzava la figura di Cypher, l’umano che tradisce Neo e la resistenza per rinserrarsi volontariamente nelle catene lievi dell’illusione.
L’unica cosa nuova è il tempo che è passato e ha lavorato sui corpi perfetti, notate, quasi sintetici di Neo e Trinity, sui loro volti algidi e impenetrabili, schermati dagli immancabili occhiali neri fascianti, gli stessi degli agenti virtuali di Matrix. Keanu Reeves, necessariamente coadiuvato da robusti supporti digitali, piroetta ancora nelle mosse del kung fu, ma si è notevolmente imbolsito e se nella simulazione della matrice ha preso le fattezze di un Gesù stanco, negli angusti spazi dei sottomarini ribelli, ha il volto cadente e gonfio, segnato dagli anni. Carrie Anne Moss (per carità, sempre bellissima) ha perso l’alterità remota e sprezzante dei film originari della serie, sono spuntate le prime rughe e il volto affilato ed enigmatico si è addolcito quasi per la malinconia dello scorrere del tempo. Così, più che le spettacolari lotte fra gli sciami di zombie e i ribelli in fuga per una San Francisco spettrale, è forse questa pacata, involontaria evidenza, il discrimine che oggi in Matrix separa gli umani dallo splendente mondo artificiale della macchine, sempre perfettamente riproducibili, e segna la nostra, fragile, essenza. La vulnerabilità dell’uomo, il suo esporsi alla corrosione del tempo, ad onta di ogni Resurrection, la nostra incontrovertibile mortalità.
