Per cominciare un piccolo esperimento mentale.
Immaginatevi di essere una giovane donna e magari non proprio un fenomeno di esuberanza. Siete in un paese straniero, arenata, nel bel mezzo di un interminabile viaggio in treno, in una città squallida e grigia in un punto qualsiasi della triste Russia post-sovietica. Accettereste di andare a passare la notte non si sa dove, scortata, su un auto palesemente rubata, da un energumeno alcolizzato e aggressivo che, il giorno precedente, al momento delle presentazioni, vi ha dato della meretrice con un linguaggio ben più colorito di quanto è ammesso dalle norme di political correctnes di questa pagina?
Se la vostra risposta è sì, avete superato il test di sospensione dell’incredulità e siete pronti per mettervi in viaggio con Juho Kuosmanen e i suoi ragazzi alla ricerca dei leggendari petroglifi della penisola di Murmansk. Siamo, infatti, dentro un on the road ferroviario che mescola i topos di Harry ti presento Sally con quelli di Before sunrise, con due protagonisti molto meno glamour di quelli espressi dalle coppie Meg Ryan e Billy Crystal e Ehan Hawake e Julie Delpy (epperfortuna!) mentre il contesto, se risulta meno accattivante e patinato, non è però privo di un suo romanticismo aspro e riluttante.
Laura è una studentessa finlandese, un po’ goffa, studia archeologia ed ha una relazione con la sua professoressa che è invece, per converso, arguta e brillante. La docente è l’anima delle feste cultural chic della sua casa moscovita, dove la povera Laura fa la figura di Adèle nei ricevimenti charmant di Emma (Lea Seydoux) nel film di Kechiche: lo stesso imbarazzato sentimento di inferiorità, la stessa sensazione avvilente d’essere sempre fuori posto, senza però la bellezza folgorante e acerba di Adèle Exarchopoulos. A sì, perché Laura è grassottella, dimessa, non brutta, ma sicuramente non bella, uno dei tanti volti che incrociamo per strada e subito dopo dimentichiamo.
Non occorre essere fini psicologi per capire che la storia, troppo sbilanciata, è agli sgoccioli e la prof. sfrutta l’idea, progettata inizialmente assieme, di un viaggio verso il circolo polare artico per scaricare la ragazza, spedendola alla ricerca dei fantomatici petroglifi di Murmansk. In treno Laura scopre però che dovrà condividere lo scompartimento n.6 con Ljoha , un ragazzo russo, rozzo e volgare, che va verso il nord per trovare lavoro e si presenta fin dalla prima inquadratura ubriaco e gratuitamente offensivo. Un incubo: quanto di più repellente si possa immaginare. Ma il viaggio è lungo e noi, formati sulle sacre fonti di Jane Austen (Orgoglio e pregiudizio), Howard Hawks (His girl Friday) e Jimmy Fontana (L’amore non è bello se non è litigarello), sappiamo già come andrà finire. Insomma, niente di nuovo sotto il sole, eppure, neanche questo è il massimo dell’originalità, l’importante del viaggio non è dove si arriva, ma come si arriva in un luogo. E su questo “come” Juho Kuosmanen riesce a costruire un film che, a patto che abbiate superato il test di cui sopra e vi armiate di pazienza, saprà catturarvi con il suo fascino sottile.
Per prima cosa Kuosmanen tira fuori dal cappello due attori perfetti per i ruoli scelti, che riescono ad interpretare, nello stesso tempo, la banale ordinarietà del quotidiano, ma anche le potenzialità divergenti in essa riposte. Seidi Haarla (Laura) introversa e insicura, quasi impacciata dalla propria femminilità che occulta sotto maglioni sformati e giacche a vento ingombranti, sa però anche illuminare il suo volto e tutto ciò che le sta attorno quando sorride, così come riesce ad infondere affetto e senso di protezione per la sua ingenua freschezza; Ljoha , il giovane operaio russo (Yuriy Borisov) a prima vista può sembrare uno psicopatico, ma nella stessa espressione del volto con cui spara le sue sbruffonate è capace di mostrare assieme irruenza e timidezza, cinismo ed una generosità sincera. Ci sono poi le scelte della regia tutt’altro che banali, rispetto ai contenuti della trama: l’uso reiterato della macchina a spalla rende gli scossoni del viaggio in treno, trasmettendoci il senso di movimento e di compressione spaziale, ma anche sottolinea gli sbalzi della relazione fra i due personaggi, i loro bruschi allontanamenti e i loro lenti riavvicinamenti; poi l’impiego delle luci, in un film girato per lo più negli spazi ristretti delle carrozze del treno, nell’oscurità delle notti artiche e nelle pallide e brevissime giornate del grande nord. Si hanno così i toni caldi, quasi innaturali, delle luci artificiali degli scompartimenti, i fari flebili dell’auto che si perdono nel buio di nessun luogo, il chiarore diafano, ma che può risultare accecante nel riflesso, degli scenari innevati. In ciascun caso le scelte non sono fortuite, ma rivestono un preciso intento narrativo, sottolineano un passaggio, una tappa nel viaggio interiore dei personaggi. E infine c’è la capacità discreta di Kuosmanen di non dirci mai quanto possiamo intuire, di accennare solo di sfuggita a passaggi che potrebbero essere inutilmente chiarificatori, di sapersi fermare un attimo prima che accadano le cose. Solo che, a questo punto, davanti a questa reticenza, che colora di un tono malinconico la narrazione, sorge il sospetto che tutto quello che fin qui abbiamo raccontato, il viaggio, la storia d’amore, la trasformazione interiore dei personaggi sia solo un pretesto e un occasione per un altro itinerario mentale: per un viaggio agrodolce nella nostalgia. Il libro, da cui è tratto il film, era ambientato negli ultimi desolati anni dell’URSS, Kuosmanen lo post-data alla fine degli anni ’90, nel bel mezzo del guado fra il passato sovietico e la stabilizzazione putiniana, e la scelta per il regista finlandese, nato nei tardi anni ’70, non sembra casuale. Kuosmanen ha un attenzione affettuosa per quel mondo, che era quello dei suoi vent’anni, dove il vecchio si mescolava con un nuovo che già mostrava i segni dell’obsolescenza. E così rivediamo le ruvide capotreno, i camerieri, le addette alla reception degli alberghi russi, ancora imbevuti della mentalità tardo sovietica, che si fanno un punto d’onore nell’essere sgarbati con i passeggeri e i clienti, sfogando così il loro risentimento cosmico contro il mondo e il destino, ma c’è anche la generosità alcolica della gente comune, che regala vodka agli sconosciuti di passaggio. Ci sono le auto scassate, le terribili sigarette accese negli scompartimenti angusti, che sembra quasi di sentirne la puzza acre che ne impregna gli arredi consunti e ci sono soprattutto i walkman con le cassette il cui nastro immancabilmente si attorciglia e, miracolo della tecnologia nipponica, ci sono le prime videocamere digitali, dove possono essere conservate tutte le tracce di una storia d’amore sfumata. Ma senza il cloud, basta un furto e tutti i ricordi svaniscono. Eppure anche questa disavventura non è del tutto negativa: in questo modo si può essere costretti a fare i conti con il proprio presente, accettare la propria solitudine e soprattutto decidere di condividerla con la solitudine di un improbabile compagno di viaggio.
