L’ultima notte di Amore

Nei film di Paul Schrader ( da Yakuza e Taxi Driver alle ultime prove di The Card Counter e Master Gardener) abbiamo spesso un uomo solo, in sordo conflitto con il mondo, apparentemente senza passato, ma di fatto schiacciato dal peso di una colpa, che magari non conosceremo mai, motore occulto di quell’esigenza di espiazione e riscatto che muove il personaggio, evocando, in questo modo, un parallelo neppure troppo forzato con i molti scheletri nell’armadio della storia americana di questi ultimi decenni.  L’aiuto commissario Franco Amore nel film di Andrea Di Stefano è invece decisamente meno problematico e potremo dire più pacificamente italico. Nonostante la faccia da duro di un bravissimo Favino che sfodera le sue espressioni più intense e virili, Amore è un buon marito, candidamente  innamorato della  sua giovane moglie, una solo apparentemente svampita Linda Caridi, perfetta nella parte di una casereccia Lady Macbeth alla parmigiana. È probabilmente proprio l’affetto per la moglie che ha portato Amore ad invischiarsi, per un misto di disponibilità condiscendente ed interesse, nella rete non proprio trasparente dei suoi parenti maneggioni, dividendo la sua attività al commissariato con lavoretti di security per un losco cugino della moglie da cui, se la fisiognomica non inganna (e raramente in un polar di genere inganna), un onesto servitore dello stato dovrebbe tenersi ben alla larga. Nessuno però può mettere in dubbio l’onestà di Amore, che è giunto alla soglia della pensione con una carriera integerrima, anche se piuttosto opaca, responsabile e attenta – non ha mai sparato un colpo di pistola – ma non certo brillante. Per questo la casuale, vantaggiosissima offerta di un importante lavoro come responsabile della sicurezza per l’azienda di un trafficante cinese potrebbe sembrare la ricompensa insperata per tanti anni di oscura routine, se non apparisse contemporaneamente alquanto sospetta. L’innesco della vicenda è così attivato e con questo definite le coordinate del dilemma in cui rimarrà sempre più intrappolato Amore, anche qui molto italianamente combattuto fra il rispetto ligio delle norme, che aveva caratterizzato il suo lavoro, e la possibilità di concedersi piccole innocenti deroghe, fra l’amore per la moglie, ma anche la sua incapacità di dirle di no, peccati per lo più veniali che però precipitano nella catastrofe. Solo che – e questo è forse il limite della sceneggiatura – nel punto più cupo della parabola, l’aiuto commissario riscopre in sé un’energia e una freddezza da personaggio di un noir di Schrader, non proprio del tutto giustificato dagli antecedenti, e – sicuramente per il piacere dello spettatore – la vicenda assume uno sviluppo imprevisto (ma non del tutto inaspettato).

Se la sceneggiatura presenta così qualche impercettibile scricchiolio, è difficile comunque accorgersene, tanto si è trascinati dal lavoro della messa in scena che fa scorrere la narrazione come un torrente impetuoso, stretto fra la inaugurale ripresa aerea, che plana spettacolarmente a volo d’uccello su una Milano notturna e labirintica e le scene claustrofobiche all’interno di un tunnel dove si svolge il vertice drammatico della vicenda, tra oscurità e bagliori delle luce dei fari delle auto sfreccianti. Di Stefano dimostra infatti una raffinata padronanza della grammatica del genere che decostruisce e rimodella in modo spiazzante come nelle scene culminanti, dove la regia rifugge dall’enfatizzazione di pleonastici rallenti o d’effetti splatter per confonderci con inquadrature sghembe, concitazioni, ellissi che ci impediscono di comprendere l’esatta dinamica dei fatti,  immergendoci, proprio grazie all’artificio manifesto di riprese e montaggio, in una atmosfera di straniante realismo. Anche la decisione di comprimere la storia nello spazio di una notte disperata, sfondata da un flashback convergente circolarmente nelle stesse scene iniziali, che assumono, inquadrate da punti di vista diversi, un nuovo terribile significato, si rivela centrata e funzionale alla scelta stilistica di creare costantemente squilibri e alterazioni nella percezione della vicenda da parte dello spettatore, come, ad esempio, accade dal punto di vista formale nell’alternanza fra gli avvolgenti piani sequenza della festa a sorpresa per il pensionamento d’Amore e il montaggio concitato delle sequenze centrali. In questo modo l’alba livida che chiude il film su un lungo primo piano del commissario giunge non tanto quanto coronamento della vicenda, ma come una sospensione gravida di angoscia. E lascia del tutto impregiudicato il significato dell’aggettivo ‘ultima’ contenuto nel titolo.

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