The Fabelmans

Forse la cosa migliore è iniziare dall’inizio. Il piccolo Sammy è agitato perché i genitori lo stanno per portare per la prima volta al cinema e lui è spaventato perché ha paura dei giganti che vedrà proiettati sullo schermo. Per rassicurarlo mamma e papà gli fanno ancora più confusione. Il papà ingegnere gli spiega che il cinema è un’illusione prodotta da una tecnica raffinata – immagini statiche che proiettate velocemente ingannano il nostro occhio, dando l’impressione artificiale del movimento. La mamma lo incanta dicendogli che il cinema è la porta d’ingresso per un mondo di sogni. Mai confusione fu però più feconda di omini verdi e archeologi con stetson e frusta, ma anche di squali, dinosauri e alieni spietati. Tecnica, sogni, ma anche incubi, come precisa con una certa apprensione il bambino, non certo convinto dalla cacofonia delle voci dei genitori. E dagli incubi bisogna proteggersi e il piccolo Sammy, uscito sconvolto dalla visione del disastro ferroviario filmato da Cecile de Mille in Il più grande spettacolo del mondo, imparerà a dominare le sue paure filmando e rivedendo ossessivamente la simulazione dello scontro fatale, riprodotto con trenini e giocattoli. Ossessione e assieme capacità di esorcizzare e trasfigurare il reale. Il che cos’è del cinema comincia a prendere corpo.

Ormai si potrebbe parlare, dopo i casi di Sorrentino (È stata la mano di Dio); Branag, (Belfast); Mendes (The empire of light) e adesso di Spielberg di un genere cinematografico a se stante: la narrazione autobiografica di grandi registi che raccontano come è nata la loro passione per il cinema e così seguiamo, assieme a Sammy/Steven, le peregrinazioni dei Fabelmas, l’icona della famiglia modello uscita da un happy days anni ’50 fra il New Jersey, l’Arizona e la California. Il padre Burth (un convincente Paul Dano che via, via che la narrazione si sviluppa, sa rivestire il personaggio di una gentile malinconia ) è ingenuo e accomodante, ma nello stesso tempo assente perché perso dietro alle valvole e ai circuiti dei primi computer che progetta mentre la mamma Mitzi (Michelle Williams che prende forse un po’ troppo alla lettera le indicazioni della regia di essere spontanea e sopra le righe), allegra e brillante, nasconde invece dietro la sua esuberanza una insoddisfazione sorda. Niente di particolarmente originale; parafrasando il conte Tolstoj: il racconto di una famiglia felice, uguale a tante altre, ma assieme, a modo suo, infelice. E come per evitare di alzare il velo sulla finzione di questo sereno quadretto, il giovane Sammy si rifugia in un’altra finzione. Il film, un po’ sentimentale e dilatato quando sono in scena le cortesi incomprensioni e i celati conflitti della coppia dei genitori, si accende di colori, movimento, entusiasmo, pura e innocente gioia quando ripercorre l’apprendistato alla regia di Sammy che ricopre le sorelline di carta igienica per trasformarle in mummie spettrali alla Cristopher Lee, scrittura i compagni boyscout come cowboys e indiani per girare il sequel di Ombre rosse, produce un colossal di guerra in miniatura, anticipando Salvate il soldato Ryan. E scopre, a sue spese, la crudele dialettica fra verità e menzogna (in senso rigorosamente extramorale, per chiosare Nietzsche) che sottende il gioco del cinema. L’oggettività spietata dell’occhio della cinepresa che coglie quanto il semplice sguardo non può o non vuole vedere; la pietosa, ironica, derealizzante tecnica del montaggio che isolando e ricombinando i frammenti, ricrea un reale più seducente, più rassicurante più vero del reale stesso. E il che cos’è del cinema, almeno del cinema di Spielberg, è davanti a noi.

Mancano solo gli strepitosi suggerimenti finali di J.Ford, in un cameo di David Lynch che da solo vale il prezzo del biglietto, di fronte ai quali non possono non tornare in mente i cieli arsi e ampissimi e le claustrofobiche inquadrature degli stivali dell’autista senza volto di un camion assassino di Duel, primo insuperato film di Spielberg. Quando la linea dell’orizzonte, come nei nostri insulsi filmini ripresi con il cellulare, sta nel mezzo dell’inquadratura è, bisogna riconoscerlo, una palla mortale.

 

 

 

 

 

 

 

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