E se fosse la morte?
Un’immagine zenitale, assolutamente centrata e racchiusa nel perimetro di una grande sala da bagno per lo più vuota. La ripresa, priva di profondità, fa sì che i sanitari candidi sembrino decalcomanie applicate sul pavimento decorato da una trama di piastrelle grigie, una via di mezzo fra un motivo frattale esheriano e le cornicette che si usava fare sessant’anni fa, sui quaderni a quadretti alle elementari. Ad un lato, dentro una vasca ellittica, un uomo, visibilmente acciaccato, ferito e medicato, immerso in un bagno di acqua lattiginosa, sta facendo colazione. Dietro di lui un grammofono e nel bidet a fianco al water una bottiglia di champagne si raffredda. L’immagine è statica, se non fosse per due infermiere che, come in una danza leggera e ipnotica, entrano ed escono al suono della musica extradiegetica di Alexander Desplat da due porte speculari nei lati lunghi della sala disegnando traiettorie studiate nel reticolo di piastrelle che calpestano, ora centrandole, ora evitandole, come seguendo con leggiadra serietà le regole cangianti di un gioco di bimbi. Un simulacro di movimento che conferma la fissità dell’immagine.
Still Life. Vita immobile. È il modo in cui nel mondo anglosassone sono chiamate le nature morte. E le inquadrature di Anderson sembrano sempre di più essere costruite seguendo questo modello come dei tableaux vivants fissati in una composizione rigorosamente strutturata, secondo principi aurei di simmetria, racchiusi in cornici rigide come tanti quadri, dove il movimento – se c’è – è lineare e controllato e segue percorsi prestabiliti. L’effetto complessivo è quello di una esangue ricercatezza, di una perfezione formale che astrae dal tempo i diversi frammenti, ciascuno potenzialmente autoreferenziale, collassato al suo interno come il tuffo elegante di uno dei protagonisti della vicenda in una melma flaccida di sabbie mobili giallastre. La cosa, a ben vedere, non cambia se dentro questi riquadri algidi improvvisamente si accende la vita – come abbiamo visto, ad esempio, in alcune inquadrature di The French Dispatch. In questi casi, la profondità di campo, in altre situazioni assente, permette di aprire, dentro lo spazio rinchiuso dell’inquadrature, molteplici vie di fuga. Ancora una volta però è il riquadro, di per se stesso immobile, che sembra gonfiarsi nell’esplosione dei fuochi d’artificio di tanti pop up evanescenti. La cornice ancora una volta non collega, ma separa. In altri casi, come in La trama Fenicia, i movimenti di macchina in queste “nature morte con persone”, se presenti, sono lenti e sembrano seguire lo spostamento dello sguardo che definisce e delimita ancora di più lo spazio racchiuso. Momenti di tempo puro, cristallizzato, Aion, presente irrigidito che, nella grazia geometrica della sua nitidezza formale, non si consuma e non trapassa in altro, le inquadrature di Anderson si susseguono, come le perle brillanti inanellate in una collana, lungo le storie aggrovigliate del regista texano. Qui nel consueto scenario vintage, in questo caso anni ‘50, che guarda però con una nostalgia al quadrato gli anni ’30, un losco uomo d’affari Tza Tza Kandor (Benicio del Toro) mercante d’armi, speculatore avido, proprietario di un impero finanziario tentacolare che minaccia con le sue oscure manovre la stabilità di economie e stati, sta architettando una astrusa macchinazione, intrecciando iniziative economico-politico-criminali (Il Phoenician Scheme del titolo) per porre sotto controllo un non meglio identificato stato mediorientale, drenandone le risorse e asservendone le popolazioni con la complicità del governo compiacente e corrotto per accumulare profitti astronomici. Le contromosse di una sorta di Spectre interstatale che cerca di arginare le iniziative del magnate inseriscono nel marchingegno di Kandor un granello di sabbia. L’aumento pilotato del costo dei rivetti d’acciaio rischia di far inceppare tutto il sistema e spinge lo spregiudicato imprenditore a pretendere maggiori quote di investimento dai suoi sinistri soci, dando il destro a Anderson di costruire la consueta serie di siparietti surreali, gremiti di star, ciascuno scandito da una precisa e ripetuta sequenza di eventi , moltiplicando gli scenari esotici dai deserti aridi, a tunnel scavati nella roccia, a transatlantici imponenti, a nigth club e ville faraoniche tutto marmi, stucchi, vetri colorati ondeggianti fra Decò e Rinascimento Egizio. Kandor è accompagnato in questo tour de force, costellato di pericoli, sfide e attentati, da Liesl (Mia Threapleton), l’unica figlia della sua vasta e negletta progenie, prossima a prendere i voti per diventare suora, lei e lui congiunti in un reciproco periodo di prova visto che il padre vuole testare la figlia come possibile erede e la ragazza vuole capire se accettare questo torbido personaggio come genitore. Come sempre nei film di Anderson, l’assoluta impassibilità imposta ai personaggi, impedisce di intuire il balenare di qualsiasi sentimento nei protagonisti, che si muovono più o meno come automi dandy i cui silenzi entrano in contrappunto con battute caustiche, per cui non appare nessuna giustificazione evidente e plausibile al progressivo avvicinamento fra i due. Ma credo che anche ne La trama fenicia, non sia poi così importante inseguire le volute della storia, nello stesso tempo eccentriche e ripetitive, bizzarre nell’affastellarsi di dettagli e digressioni e semplicistiche nelle linee di sviluppo d’assieme. Se qualcuno si diverte, si può parlare dell’ennesimo ripresentarsi dei travagli di una famiglia disfunzionale, degli intrecci fra amore paterno e caste seduzioni, financo di una acuta critica di un capitalismo rapace. Il vostro umile recensore preferisce però concentrarsi sulla contrapposizione fra l’incedere stordente delle metamorfosi, dei colpi di scena, delle catastrofi e delle resurrezioni della storia incalzata dalla logorrea inarrestabile e dal magma sonoro incalzante che fonde assieme le musichi originali di Alexander Desplat con brani di Stravinsky, Beethoven, Glenn Miller, Miles Davis e, non a caso, Mussorgsky (Quadri in un esibizione) con la compostezza ieratica dei blocchi visivi che compongono – come istantanee di cristallo – questo flusso. Ancora una volta Anderson ci pone di fronte al combinarsi di due linee temporali: il Chronos delle vicende umane casuali e caotiche si compone di attimi sospesi e scissi in cui si fissa l’evento immobile, solitamente ininfluente, dove il tempo si interrompe in un istante assoluto. Solo che, con il succedersi dei diversi film di Anderson, questa polarità sembra sempre più accentuarsi fino a rovesciarsi di segno. Se gli splendidi quadri d’infanzia immersi in un «temps perdu» di Moonrise Kingdom e il fascino di una mitteleuropa onirica da gioco di balocchi di Grand Budapest Hotel apparivano gravidi di virtualità ammiccanti che trascendevano il semplice impianto della storia, oltrepassando lo spazio della rappresentazione verso la creazione di mondi, la rigidità delle stazioni visive dei successivi film di Anderson assume sempre più un aspetto spettrale, fa segno verso qualcosa, ma è un qualcosa che non c’è. Come spettrale, seppur nella sua pesante, indolente, lacerata corporeità è in fondo la figura di Korda. Già lo vediamo nelle prime sequenze, sopravvissuto miracolosamente ad un attentato che ha sventrato il suo aereo, comparire distaccato e indifferente sulla scena delle riprese televisive che annunciano la sua morte, sorreggendosi un non meglio identificato organo che gli straborda dal ventre squarciato. In precedenza, in una esperienza pre-morte che si ripeterà nel corso del film, Korda aveva fatto il punto sulla sua vita in una sorta di oltretomba in bianco e nero, sbucato fuori da un mito caucasico a mezza strada fra Dreyer e Abuladze. Ma l’alternarsi di queste scene, che portano Korda a dialogare con Dio stesso, con le strampalate vicende dai colori pastello acido in cui si avviluppa l’affannosa ricerca di finanziamenti del miliardario pone in forse i confini fra una vita insediata costantemente dalla morte ed una morte in cui si conserva un’ultima sparuta parvenza di vita. Il cinema di Anderson aveva espresso i suoi momenti migliori quando in film come i I Tannenbaum, Moonrise Kingdom o Grand Budapest Hotel la fantasmagoria dei suoi effetti scenici e l’esattezza maniacale della sua astrazione formale poggiavano su un romanticismo stravagante, soffuso e palpabile, che innervava la narrazione avvolgendola in un alone di delicata malinconia. Da The French Dispatch in poi il rigore asettico del suo sguardo si è fatto sempre più freddo, stilizzato, inflessibile, funereo. Se si vuole essere sbrigativi, si può parlare di manierismo, ma è qualcosa di più, forse, come i casi di Near death Expirience di Tza Tza Korda, un’iscrizione della morte nella vita. Solo che niente è semplice in un film di Anderson e così anche questo proliferare dell’inorganico, dell’apatico, dell’imperturbabile, trova elementi in controtendenza pure ne La Trama Fenicia. Ad esempio, nel volto sfatto, cadente, tumefatto di uno straordinario Benicio del Toro che, pur attenendosi rigorosamente alle consegne di anestetizzata atarassia proprie del cinema di Anderson, riesce ugualmente a trasmettere, in impercettibili variazioni d’espressione, spossatezza e sconforto, ironia e tristezza non disgiunte da uno stupore assieme disincantato eppure con una traccia sparuta di malizia infantile. Stati d’animo appena accennati, ma capaci di dare spessore e vita ad un personaggio altrimenti piatto come un soldatino di Norimberga. Come dire che, anche all’interno dell’ermetica gemma di giada translucida del cinema di Anderson, balena ancora uno sprazzo anarchico di vitalità.
