1995, trent’anni fa Wong Kar Wai girava Fallen Angels
Su uno schermo di un computer ripreso ai margini dell’inquadratura, defilato rispetto all’azione, si illumina per dissolversi la scritta: “There is the difference”. Qual è la differenza?
Ming, un killer indolente, attende le indicazioni della sua partner per liquidare con una freddezza svogliata le sue vittime. Lei, femme fatale imperturbabile, fasciata da tubini neri in lattice, lo desidera in silenzio, pulisce di nascosto la sua stanza, rovista nella sua spazzatura in cerca di improbabili ed inutili tracce. Nella notte di Hong Kong si aggira poi un altro personaggio: Ho Chi Moo un giovane sordomuto disoccupato che ha deciso di lavorare in proprio scardinando le botteghe di macellai, parrucchieri e gelatai: massaggia enormi cadaveri di maiali e sequestra nottambuli che sottopone a shampoo forzati o indigestione di gelati. Intrecci più o meno sconclusionati complicano le vicende: Ming vuole abbandonare la sua attività, incrocia una sua vecchia amante, Baby, e si rifugia nella casa della giovane, senza però riconoscerla. Ho Chi Moo si innamora di Charlie, una ragazza incontrata per caso che lo trascina in una inconcludente vendetta contro la donna che ha rubato il suo uomo. Poi, ottenuta in regalo una videocamera, inizia a filmare ogni istante della vita del padre, refrattario a fare da cavia per gli esperimenti registici del figlio, ma segretamente affascinato dalle riprese che poi rivede da solo alla tv la sera. Ming lascia la sua partner che nasconde dietro la maschera imperturbabile di dark lady la sua disperazione, ma l’uomo morirà nell’ultimo lavoro assegnatogli dalla complice, sorpreso in un imboscata forse architettata dalla donna. Come improvvisamente muore anche il padre di Ho Chi Moo che realizza la necessità di diventare grande, comprendendo, attraverso le riprese filmate del padre, quanto era profondo il loro legame. Ho Chi Moo e la complice di Ming si incontrano in un bar dopo una rissa che ha coinvolto il ragazzo e a cui la giovane aveva assistito indifferente. I due tornano a casa in moto attraversando un buio tunnel. Lei si appoggia morbida sul corpo di Ho Chi Moo mentre la camera alza l’obiettivo verso il grigio del cielo.
La differenza abita lo spazio casualmente attraversato dai personaggi, uno spazio coscienziosamente minato dalle sincopi del montaggio, sovvertito dall’irregolarità sbilanciata delle inquadrature, dilatato, pur nella compressione dei luoghi spesso affollati o incongruamente deserti, dall’uso ossessivo degli obiettivi a focale corta, agitato dai movimenti di macchina, frantumato dalla grammatica balbettante del jump cut, inciso dai tagli voyeuristici delle riprese in slit staging. E l’oscurità permea questo spazio metropolitano frammentato e notturno: un buio vischioso dai riflessi opacizzati dei filtri verdastri o azzurrognoli, inutilmente contrastato da luci fioche e accidiose che sembrano rinforzare l’oscurità più che combatterla. Ma la differenza intacca come un’assenza corrosiva anche il tempo. Ciascun personaggio è senza passato, gli unici indizi che fanno cenno ad un retroterra temporale sono ironici o depistanti: Ho Chi Moo ha perso la voce da piccolo, dopo aver mangiato degli ananas sciroppati scaduti, forse una scatola avanzata dall’abbuffata catartica che fece l’Agente 223 di Hong Kong Express, il precedente film di Wong Kar Wai di cui Fallen Angels sembra un prolungamento parassitario, per annegare nello zucchero asprigno del frutto tropicale il suo amore sfortunato; Ming incontra un suo vecchio compagno di scuola a cui mostra la foto di una moglie e di un figlio che provengono da un passato inventato. Ciascun personaggio è imprigionato nella propria solitudine, rafforzata dall’intreccio delle voci fuori campo, monologhi non rivolti a nessuno, che moltiplicano equivocamente i punti di vista sulle vicende narrate. Anche quando si incontrano i personaggi non interagiscono, ciascuno recita il proprio ruolo, disinteressato a ciò che gli accade attorno: Baby e la complice di Ming si struggono per il killer, ma sono indifferenti rispetto alla sua indifferenza. Di fatto non fanno nulla per conquistarlo e legarlo a loro. Baby si muove con le movenze nervose ed esagitate di un fumetto manga, come una Lolita bamboleggiante in una parodia respingente della seduzione. La partner di cui non sapremo mai il nome si rifugia nell’autoerotismo o simula amplessi con un lucente juke-box che ricorda Ming solo nella meccanica freddezza. Quando poi si trovano in momenti risolutivi nello stesso spazio i personaggi non si guardano, fissano punti distanti nel vuoto come nell’ultimo incontro fra Ming e la sua complice o come nel caso del bellissimo long take dove Ho Chi Moo si scioglie d’amore per una Charlie affogata nel suo risentimento contro la rivale, ma deluso finisce per allontanare lo sguardo, in direzione specularmente opposta agli occhi della ragazza mentre la cinepresa continua a riprendere la scena attraverso una cascata di pioggia che scivola lungo il vetro del locale dove si trovano i giovani. Ma se il passato è mancante o posticcio, il presente è a scadenza. Il mondo oscuro di Fallen Angles non prevede futuro, non conosce la possibilità dello sviluppo. Tutto si ripete più o meno identico: le sparatorie sincopate di Ming e le bravate notturne di Ho Chi Moo; il padre del ragazzo che rivede i filmini del figlio e il figlio che rivede gli stessi filmati con il padre protagonista; gli amori sterili e non corrisposti e il timore di poter rivelare i propri sentimenti. Ma la rarefazione del tempo che si contrae in un presente consapevole della sua precarietà rinvia verso l’assenza che scava all’interno dei personaggi, indicando una perdita che può essere scoperta (il rifiuto o la fuga dell’amato, la morte del padre) o misteriosa come nel caso di Ming, una perdita comunque senza oggetto. La malinconia lieve, di Hong Kong Express si è distillata e ispessita, l’ironia romantica si è tramutata in sarcasmo a tratti ludico, ma comunque amaro. Tutto sembra portato all’estremo come le scelte stilistiche che sconfinano nel manierismo. La perdita che inquieta i film di Wong Kar Wai si è resa più aspra e solitaria, aprendo lo spazio di una nostalgia sconfortata, quella che sarà posta a tema in modo più consapevole e profondo come cifra dei successivi film di Wong Kar Wai: Happy together e In the mood for love. Una nostalgia qui vuota, come nota bene Silvia Alovisio nel suo saggio sul cinema di Wong Kar Wai, preventiva, che insinua però l’incrinatura della differenza nella monotonia del presente e fa segno verso un altrove che non c’è, anche se può essere che se ne intraveda l’illusione, ambigua e provvisoria, alla fine di un lungo tunnel, quando, per la prima volta, la macchina da presa punta verso l’alto e inquadra un cielo nuvoloso, non certo un alba di speranza, forse però una tregua. “Peccato che la strada verso casa non sia più lunga, so che finirà presto, ma adesso sto sentendo un calore piacevole”
