L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice

Nel primo piano sequenza vediamo un non certo atletico signore (Jean Charles Clichet, perfetto nella parte del signor nessuno) che in tenuta fluorescente da jogging arranca per una via di un’anonima (per antonomasia) città francese. Si ferma. La macchina da presa lo inquadra, di tre quarti di spalle, fissare dall’altra parte della via una non proprio giovanissima (il film di Alain Guiraudie abbonda di litoti) signora un po’ in carne (Noémie Lvovsky, sempre a suo agio nelle sue rubensiane grazie che espone con generosità), sgargiante in una corta pellicciotta sintetica scarlatta, fusò seconda pelle e scarponcini coordinati che lasciano ben pochi dubbi sulla sua occupazione. Scavalcamento di campo: siamo dall’altra parte della strada e possiamo vedere lo sguardo smarrito, incantato, anelante dell’uomo. Sicuramente un bel modo per filmare un coup de foudre, tanto straniante e buffo quanto goffe e ingenue appaiano le avance dell’uomo che, tenendo conto di tutti i presenti in sala, sembra essere l’unico ad equivocare sulla professione della signora. E anche un bel modo per introdurci nel mondo indeciso, anarchico e fluttuante di Viens, je t’emmène. Ondeggiante in primo luogo fra le atmosfere vaudeville e uno sguardo divertito delle paranoie delle nostre società, fra il gusto dell’assurdo e la più collaudata e tradizionale messa alla berlina dei cliché e dei luoghi comuni che ci affliggono, anche se poi, almeno ad un primo livello, su degli stereotipi è costruito il film: l’innamorato innocente, romantico e impacciato, la puttana santa, candida e amorevole, il marito geloso, i condomini sospettosi, i vicini di casa impiccioni, il poliziotto viscido e prevaricatore, il giochino del soddisfacimento del desiderio sempre interrotto e dilazionato dall’imprevisto costantemente in agguato, fintanto il tormentone, non proprio sofisticato, degli ululati di piacere della donna nel culmine dell’orgasmo. Il meccanismo più interessante innescato da Guiraudie è infatti quello di assumere questi stereotipi, farli interagire fra loro in modo paradossale per decostruirli dall’interno. Ecco che così Médéric, di ritorno dal primo sfortunato amplesso con la bella Isadora, interruptus da un attentato jihadista che graverà come un macigno sulla storia e complicato dall’arrivo del marito geloso della bella, incontra un giovane arabo nell’androne del suo condominio e, più per imbarazzo che per solidarietà umana, gli dà asilo nel suo appartamento, salvo passare poi tutta la notte nel dark web a terrorizzarsi con la visione di clip integraliste di sgozzamenti e brutalità che inizieranno a popolare i suoi sogni. Ci si aspetterebbe, nel microcosmo del condominio, l’elevarsi di un muro di ostilità e diffidenza nei confronti di questo nuovo inquilino scomodo, cosa che puntualmente si verifica in prima battuta, salvo però trasformarsi ben presto in un moto di protezione verso l’estraneo, suscitato anche qui non tanto dalla compassione, quanto per un ulteriore salto di livello nella contrapposizione amico/nemico.

Quello che Guiraudie sembra così mostrarci nell’emblematica Clermont Ferrant, il centro geografico ed allegorico di una Francia, ma forse anche di un Occidente estremo, è la sfuggente inintelligibilità del reale, reso incomprensibile non solo per la saturazione dell’informazione (la voce onnipresente dei telegiornali che commentano l’attentato accentuando la confusione), per il caos complesso delle situazioni, appena occultato dalla loro apparente banalità, ma anche per il rifiuto manifesto, come accade per il protagonista del film, di provare a comprendere ciò che accade. Personaggio, a ben vedere, fin troppo familiare, Médéric è Intempestivo, inetto, sperduto, ma assieme assurdamente determinato nella sua passione cieca. Per il resto passa il suo tempo cercando di nascondersi, rifuggendo gli impegni e le responsabilità per poi alla fine assumerli, come nel caso dell’aiuto dato al ragazzo arabo, proprio per la sua incapacità di prendere posizione e di compiere delle scelte. A ben vedere anche il tuffo nell’amour fou per Isadora, e la sua pervicace testardaggine, non è altro, come si capirà in un ulteriore rimescolamento delle carte finale, che una fuga da se stesso. Apologo sui nostri tempi incerti, il film di Alain Guiraudie vive dei costanti rovesciamenti delle situazioni, ben annunciati formalmente dall’incipit, ma su questi rischia anche di smarrirsi, soprattutto nell’ avvicinarsi del finale quando il gioco del moltiplicarsi dei colpi di scena e delle inversioni di posizione assume un andamento vorticoso e meccanico, tanto da far assomigliare la scena ad un teatro di marionette o di pupi siciliani che se le danno, non solo metaforicamente, di santa ragione. Rimane una commedia, a tratti molto divertente, anche lei indecisa fra humour noir e la pochade, con tanta, forse troppa carne al fuoco: la xenofobia e le peripezie del desiderio, l’ordinarietà della violenza e la denuncia del conformismo degli stereotipi, l’ansia metropolitana e l’impersonalità anodina dell’uomo ad una dimensione, con il  rischio che l’invito proposto dal titolo originale: “ Viens, je t’emmène” risulti quanto meno ambiguo, non tanto perché non appare chiaro dove ci stia portando Alain Guiraudie, quanto perché, alla fine, forse non lo sa neppure lui.

 

 

 

 

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