Perso nella palude delle piattaforme c’è un film che concorre, quatto, quatto e non senza meriti, per l’Oscar. Monk è uno scrittore nero, docente troppo raffinato di una università americana i cui studenti si ingegnano per restare politicamente corretti e ignoranti. Una giovane dai capelli smeraldo – segno inconfondibile di austera coscienza woke – non può sopportare che sulla lavagna capeggi sferzante la parola con la n (cioè negro). Poco importa che non sia un insulto razziale, ma parte di un titolo di una novella di Flannery O’Connor, il compunto e fiero senso di colpa per la schiavitù, la tratta dei neri e tutte le nefandezze compiute dall’uomo bianco dai tempi della maledizione di Noé a Cam in poi non può certo andare per il sottile e perdersi in distinguo di lana caprina. Monk, prontamente denunciato dalla ragazza, deve subire le bonarie reprimende del direttore di dipartimento a cui si aggiunge il rifiuto degli editori del suo ultimo romanzo che, in evidente sprezzo delle logiche di mercato e probabilmente anche del ridicolo, attualizza nella società nera americana la tragedia dei Persiani di Eschilo. Non è esattamente quello che si aspettava il pubblico (bianco) che va invece in solluchero, se si parla di afroamericani, davanti a racconti verità, crudi resoconti del degrado del ghetto che esprimono l’anima profonda di una umanità vitale e ribelle. Poco importa poi se questi romanzi, come quello della nuova star del momento Sintara Golden di cui Monk assiste alla affollata presentazione dell’ultimo romanzo, siano infarciti di luoghi comuni e cliché e che l’autenticità acclamata non sia altro che un frusto artificio di maniera, l’importante è che le vicende narrate corrispondano agli stereotipi morbosi che popolano l’immaginario dell’intellighenzia bianca. Monk, esasperato, decide di far saltare il banco e in una notte popolata da fantasmi di gangster e rapper scrive una parodia paradossale di quei romanzi, spingendo oltre la caricatura e il grottesco storia e personaggi. Forse però la presa in giro è troppo sofisticata o forse Monk ha un talento nascosto per la fiction spazzatura, fatto sta che il manoscritto fa il botto, viene preso sul serio e conteso a colpi di centinaia di migliaia di dollari dagli editori. Monk vorrebbe rifiutare con disprezzo le offerte, ma le sventure della sua famiglia di una buona borghesia nera in via di decadenza, la morte improvvisa della sorella, l’alzheimer incipiente della madre, le bravate scapestrate del fratello gay, lo spingono a più miti consigli, fino a farlo diventare prigioniero del suo alter-ego, un malavitoso evaso che Monk aveva spacciato agli editori come autore del romanzo.
Il film di Jefferson ha diversi meriti ed alcuni problemi. Fra i primi la scrittura brillante della sceneggiatura e l’interpretazione convincente, nei panni di Monk, di Jefferey Wright, che sa alternare con bravura il registro drammatico a quello comico, riuscendo anche ad esprimere la soffusa malinconia e il senso di inadeguatezza ai tempi del personaggio. I secondi nascono invece dall’intrecciarsi di due piani di narrazione, non sempre perfettamente integrati: da un lato la satira feroce del perbenismo codino della cancel culture che non risparmia però neppure il rovescio della medaglia e cioè le idiosincrasie di Monk nei confronti del politicamente corretto; dall’altro le vicende familiari del professore, il dolore per la morte della sorella, la presa di coscienza della demenza incombente della madre, il complesso rapporto affettivo che lo scrittore cerca di costruire con una vivace e comprensiva vicina di casa. Si capisce che il racconto voglia dare spessore umano al suo protagonista, giustificando i suoi dubbi e le sue incertezze, ma non sempre l’equilibrio fra le due componenti è ben calibrato e a volte si corre il rischio di vedere stridere le eversioni grottesche del primo filone con la convenzionalità un po’ scontata del secondo. Il film diventa così più efficace quando, senza timori di sconfinare nel surreale, la messa in scena riesce a far interagire in modo esplosivo i due percorsi, come nel finale, dove il racconto si attorciglia in una metanarrazione effervescente, ma a suo modo amara, in cui Monk scopre (e con lui anche noi scopriamo) che anche se si avesse la straordinaria opportunità di scrivere in anticipo la nostra storia, la scelta di un rassicurante happy end ci sarebbe negata dalla Provvidenza o, è quasi lo stesso, dalla Produzione. Sopra tutto le esigenze del mercato: the show must go on.
