Film sulla redenzione ed in fondo sulla resurrezione dei corpi. Magari non nella loro completa interezza. Charlie è un obeso mostruosamente debordante, definirlo una balena è un eufemismo (ed infatti Aronofsky si nasconde dietro il politicamente corretto del richiamo a Melville). Le balene sono slanciate, agili, saltano sull’acqua con la plasticità imponente delle onda di Hokusai. Charlie è schiacciato, oltre che dalla deformità del suo corpo, dalla colpa. Non a caso continua a scusarsi, scusarsi perché non ascolta la sua amica Liz, perché non vuole andare all’ospedale, perché ha abbandonato la moglie e la figlia per fuggire con un suo studente. Ma soprattutto perché è ancora vivo e non ha fatto nulla nella vita che possa giustificare il suo esserci. La voragine della sua inutilità è indirettamente proporzionale alla massa ripugnante del suo corpo enorme. Charlie insegna online ad un scorso di scrittura, predica – non molto originalmente – l’autenticità e la sincerità come valori inderogabili della scrittura, ma non ha il coraggio di aprire la telecamera per mostrarsi ai suoi agli allievi collegati in zoom. È accudito da Liz, un infermiera sorella del suo giovane amante, probabilmente ucciso dal senso di colpa per la sua relazione omosessuale che cozzava contro i rigidi principi della sua formazione in una setta integralista. La routine squallida di Charlie, da tempo indirizzato verso un lento suicidio per bulimia, è sconvolta dall’arrivo della figlia, un’adolescente ribelle, anzi, a dire il vero, scopertamente malvagia, che Charlie cercherà di redimere. Tratto da un opera teatrale di cui mantiene l’impianto claustrofobico, compresso negli spazi sudici dell’appartamento di Charlie, ancora più schiacciati dall’incombenza straripante del suo corpo, il film si regge sul contrasto fra i sentimenti opposti del disgusto e della pietà suscitati dalla figura di Charlie, tanto remissivo quanto inspiegabilmente ottimista sulle possibilità di redenzione della figlia.
Il film non è mal fatto, Brendan Fraser si applica con dedizione, ma, mi sia concesso, il risultato finale si adatta perfettamente alla definizione che Umberto Eco aveva dato del kitsch in Apocalittici e Integrati: “Kitsch è l’opera che per giustificare la sua funzione di stimolatrice di effetti, si pavoneggia con le spoglie di altre esperienze, e si vende come arte senza riserve”. Aronofsky si prodiga con ogni mezzo per stimolare le ghiandole lacrimali del suo pubblico (con ottimi risultati, visto le reazioni in sala alla Mostra del Cinema al Lido), mettendo al bando dallo sviluppo della narrazione ogni elemento che potrebbe – attraverso l’ambiguità, l’ironia, la reale cattiveria – inquietare la semplice formula che regge la trama. Ma nello stesso tempo riveste il tutto di richiami “elevati” da Moby Dick e alla Bibbia, tratteggiando a tinte forti questa storia di dolore e redenzione, culminante in un trionfo di luce di cui si sarebbe volentieri fatto a meno.
