Un caro amico, raffinatissimo cinephile, diceva che si comincia a vedere un film dal titolo (e ci si alza solo quando sono scomparsi i titoli di coda. Obbligatorio!). In Chronique d’une liaison passagère i poli fondamentali su cui puntare l’attenzione sono “cronaca” e “passeggera”. Una cronaca registra, non cerca di spiegare, di trovare motivazioni, di presupporre fini. Non ha nessuna intenzione di commentare e soprattutto di trarre una morale. Passeggero è qualcosa che trattiene dentro di se la sua conclusione, ma senza ansia, tristezza, sentimento di caducità e memento mori. Un mal di testa passeggero ci rannuvola un po’ la giornata, ma poi svanisce, senza lasciare tracce. Un amore passeggero dovrebbe donarci un po’ di felicità e piacere, senza scontare i tormenti della passione e l’amarezza della fine.
Charlotte e Simon si sono incontrati ad una festa, si sono piaciuti. Si rivedono. Diventano amanti. Lui ha il volto di una banale e tenera ordinarietà di Vincent Macaigne, lei, effervescente, disinibita, immediata, porta con disinvoltura il naso importante di Sandrine Kiberlain. Charlotte, single indipendente, è diretta, spregiudicata, consapevole del suo desiderio, Simon, sposato con figli, invece si presenta goffo, involuto, problematico, bloccato, ma non troppo, dai sensi di colpa. Già sull’opposizione complementare di questi due caratteri si costruisce il tessuto di sottile comicità che innerva la narrazione, costruita su di una sceneggiatura precisa e vivace, che ha un tocco romheriano nel sottolineare con gentile ironia gli stati d’animo sfumati della dissimulazione onesta, della timidezza malcelata, dell’imbarazzo impacciato. Charlotte e Vincent si concedono una parentesi, la regia evita di ritrarre frammenti della loro vita esterna alla relazione, tutto è concentrato nei loro incontri, nell’atmosfera di sospensione divertita che li pervade. Non c’è nessun progetto, ma la reciproca intesa di trarre tutto il piacere possibile da una situazione che è consapevole del suo essere effimero. Piacere e tenerezza, da cui per tacito patto, non si sa fino a quanto rispettato, si decide di espellere la passione e il carico di turbamenti, ansie e apprensioni che il turbine dei sentimenti comporta. Piacere sensuale, ma anche e soprattutto piacere della parola. Il sesso sembra, anzi, quasi un pretesto per fluttuanti divagazioni sulla vita, sull’amore, sul passato. Solo il futuro, per sottinteso accordo, è precluso. Conversazioni briose, in vero più da salotto illuminista che interno borghese, che Mouret ha però l’abilità di rendere naturali, spogliandole da ogni pesantezza letteraria. Conversazioni sottolineate da sapienti movimenti di macchina e piani sequenza che nel grande appartamento di Charlotte inseguono i personaggi, ma poi, quasi distratti da qualche particolare insignificante, li perdono di vista, per poi vederli rispuntare incorniciati nel riquadro di una porta o nel controluce di una finestra. È importante nella messa in scena il ruolo dello spazio, sempre arioso, negli appartamenti open space, nei parchi o nei giardini, negli ampi saloni museali dove si svolge la vicenda. Uno spazio sempre attraversato dal movimento, quasi dal rincorrersi e dal ricercarsi dei personaggi senza che questo comporti però mai sentimenti di inquietudine o apprensione, ma solo un compiaciuto gioco delle parti. Ciascuno, infatti, a ben vedere, si racconta, in perfetta buona fede, le sue piccole menzogne. Come diceva il titolo di un precedente film di Mouret (Les choses qu’on dit, les choses qu’on fait), una cosa è quello che, pur in piena e trasparente sincerità, si dice, una cosa è quello che (spesso inconsapevolmente) si fa o si vive, e delicati movimenti di trevelling della macchina da presa – che avvicinano con discrezione i volti o le nuche dei protagonisti – sottolineano gli impercettibili mutamenti nei loro stati d’animo. E Mouret, senza prendere posizione, lascia allo spettatore decidere se è possibile un piacere senza attaccamento, un amore a scadenza come un barattolo di ananas sciroppati (1€ a chi indovina per primo la citazione) od ancora, come (si) racconta Simon, poter scindere senza drammi il proprio io in due persone che vivono felici le loro due vite.
La fine era già inscritta nell’inizio e Mouret ha il merito di non drammatizzare (troppo) il disincanto. Molti hanno notato, non senza ragione, un riconoscente omaggio del regista francese all’ironia brillante del cinema di Woody Allen – la scena finale, non a caso, riprende gli elementi della conclusione di “Io e Annie” anche se li rimescola in una combinazione originale – ma, sarà anche per la cristallina freschezza delle musiche di Mozart ed Haydn che fanno da contrappunto agli incontri degli amanti, il mood generale del film sembra più ispirarsi alla leggerezza raffinata di un racconto settecentesco – come il soggetto di un altro bel film di Mouret, Mademoiselle de Joncquières, tratto da Jaques fataliste di Diderot– che agli interni nevrotici della Manhattan contemporanea. In fin dei conti anche in quegli ambienti eleganti e soavemente richiusi in se stessi in cui si svolgevano quelle storie, si viveva nel piacere del gioco, della conversazione e dell’amore, la sfuggente e appena malinconica consapevolezza di una fine prossima.
