“Porre una domanda significa sempre “agire per penetrare”. Quando la domanda viene usata come mezzo di potere, essa affonda come un coltello nel corpo dell’interrogato. Si sa già cosa si “potrà” trovare, ma si vuole veramente toccare con mano […] La tirannide più pressante è quella che si permette di porre le più pressanti domande”. Così Elias Canetti in Masse e Potere.
Un uomo è in un ufficio per richiedere il rilascio della patente di guida. Gli serve per il suo lavoro. Non vediamo chi è al di là della scrivania, di fatto ci identifichiamo con il suo sguardo. Sentiamo solo la sua voce. Che indaga con indifferenza che via via trapassa in pedanteria ottusa e poi in morbosità per scavare dentro le abitudini, le convinzioni, la vita del richiedente. Alla ricerca di una sua supina adeguazione alla norma. Per cui il fatto che il ragazzo abbia deciso di tatuarsi una poesia sul corpo appare un abominio, che merita l’umiliazione del denudamento davanti al potere. Un potere irresponsabile che può inquisire a piacere, esigere risposte circostanziate che trafiggono l’interrogato come delle frecce, senza, per altro, dover rispondere circa i motivi delle sue asfissianti richieste. Un potere che pretende, non solo di mettere a nudo l’interrogato, ma di fissarlo nella sua condizione di vittima, inchiodarlo alle sue inconsapevoli responsabilità perché in ogni caso si presuppone la colpevolezza dell’inquisito, anche se il suo crimine rimane a lui ignoto. E questa situazione paradigmatica si ripete, ossessiva, per tutto il film. Nove episodi: camera fissa, ripresa senza stacchi su individui diversi sottoposti ad interrogatori, a volte ingannevolmente benevoli, a volte inquisitori: la ragazza accusata di aver guidato senza velo, l’uomo che cerca un impiego ed è sottoposto ad un esame di dottrina islamica, la bambina che balla allegra in un negozio e viene via, via bardata con uno scafandro di veli e pastrani, difendendosi con il silenzio davanti alle domande condiscendenti se preferisce il grigio cenere o il nero cobalto per l’ennesimo tabarro che la opprime. E l’interrogato, braccato, si difende come può, spesso con la menzogna, il più delle volte con la reticenza, se riesce, come la bambina, ancora non del tutto consapevole di quello che le accadrà, con l’indifferenza. Scene di ordinaria assurdità nell’Iran contemporaneo, girate in modo asciutto, scabro, volutamente ripetitivo nella scelta delle inquadrature, nella banalità delle situazioni, nella persistenza delle soluzioni formali. Un film difficile da condurre perché esposto al rischio del macchiettismo, ma che i registi Ali Asgari e Alireza Kathami portano avanti con lucidità fredda, non esente da un composto humour noir, che però non diluisce in nessun modo la violenza persistente che sottende il rapporto di dominazione dell’interrogatorio. E degli attori, come spesso accade nei film iraniani, straordinari, che riescono a sopportare lo sguardo indagatore della macchina da presa fissa sul loro volto, trasmettendoci il turbamento degli stati d’animo che agita e comprime, volta per volta, l’inquisito: dalla resistenza alla sottomissione, dallo sdegno all’umiliazione. Poi, in un finale che si riallaccia circolarmente alle emblematiche riprese iniziali di una Teheran immota, percepiamo, per la prima volta, il volto devastato e devastante di chi sta al di là della scrivania. Un attimo prima della catastrofe. Un monito o una speranza?
