C’è qualcosa di disturbante in questo film dei fratelli Dardenne. C’è che il loro cinema ci costringe a sottoporci ad una sorta di irritante “cura Ludovico”, obbligandoci a poggiare gli occhi su ciò che ci farebbe molto comodo non vedere e non sentire e lo fa in modo spietato, fino a sfregiare la nostra pacifica e indolente indifferenza. Una ferita lacerante, che fatica a rimarginarsi anche usciti dalla sala. Per capire di cosa sto parlando basta la sequenza iniziale del film. Un primo piano compresso in una cornice troppo stretta del volto di una ragazza africana – un bel viso di un’adolescente che sta diventando donna, ma che trattiene ancora il ricordo dei lineamenti di una bambina. La giovane risponde a delle domande intorno al suo passato nel suo paese d’origine in modo reticente, impacciato, dissimulando goffamente la menzogna. Ma la potenza della scena non sta soltanto in ciò che vediamo, l’imbarazzo crescente della ragazza che presto si trasforma in angoscia, quanto nella cortese affabilità, non disgiunta da una comprensione che sembrerebbe sincera, della voce fuori campo, impegnata in un falsamente benevolo, ma in realtà stringente, interrogatorio che sta schiacciando la giovane sotto il peso delle contraddizioni, che le costeranno il mancato riconoscimento della condizione di rifugiata e quindi la probabile espulsione. In quella voce è racchiusa tutta la sensata ragionevolezza con cui affrontiamo il problema dell’accoglienza dell’altro (mica possiamo tenerceli tutti?) e tutta la nostra cattiva coscienza. Lokita, la ragazza sottoposta ad inquisizione, è arrivata in modo clandestino in Belgio assieme ad un bambino, Tori, che ha ottenuto, secondo princìpi più o meno imperscrutabili l’asilo nel paese, negato alla giovane. I due si fingono fratelli, ma in realtà provengono da paesi diversi, si sono conosciuti sul barcone che li ha portati in Sicilia dove è nata quell’amicizia che ora li unisce indissolubilmente. Un legame che va ben al di là dell’opportunità e del bisogno di sostenersi a vicenda in un mondo ostile, ma che riguarda l’esigenza profonda che questi ragazzi abbandonati da tutti provano di amare e di essere amati, di potersi dedicare all’altro, di proteggerlo e sentirsi protetti, in modo disinteressato e felice. Quando vediamo Tori e Lokita che cantano assieme in un locale dove lavorano per raggranellare qualche soldo, o rincorrersi in modo spensierato per i corridoi del centro d’accoglienza dove vivono è come vedere la luce della Grazia in un universo desolato e buio. Ma non c’è nello sguardo dei Dardenne nessuna concessione al pathos o ad una facile empatia. Anzi, la scelta dichiarata di costruire la discesa agli inferi dei due fratelli – costretti per sopravvivere ad affidarsi a dei loschi trafficanti di droga che promettono a Lokita di fornirle dei documenti falsi– come un torbido noir, ha proprio il fine di smorzare ogni facile deriva sentimentale. Questa scelta è stata in parte stigmatizzata da certa critica che ha rimproverato ai Dardenne un compiacimento nella crudeltà, un sovraccarico di tragedie, un assenza di pietà che cozzerebbero contro il controllo misurato, caratteristico del loro cinema. Ma sembra un po’ un opera di rimozione. Bisogna dire, purtroppo, che non c’è nulla di eccessivo nelle vicende narrate o che debba sollecitare troppo la sospensione del principio di incredulità, tanto più che in una gara di indifferente efferatezza l’istituzione dell’accoglienza belga rischia di dimostrarsi più asetticamente disumana degli aguzzini di Lokita. O quanto meno si tratta di una bella lotta. È il confronto fra le due situazioni che, in termini di spietatezza, risulta più disturbante e quindi stimola i processi di rimozione, non certo le peripezie a cui sono sottoposti i ragazzi. Almeno i criminali non rivestono il loro agire di una pelosa ipocrisia. Lo stile dei Dardenne rimane poi immutato: scarno, ma tagliente; sfugge, grazie al sapiente utilizzo dell’ellisse o del fuori campo, ad ogni tentazione di voyerismo che colpendo con la brutalità manifesta delle immagini lo spettatore, stimoli la commozione in una autoassolutoria condanna dei malvagi (non siamo mica come loro!); sobrio fino alla ricerca di una purezza astratta nelle scene più drammatiche non cade nella trappola di un pedante didascalismo. E rimane immutato il giansenismo dei fratelli Dardenne, il loro interrogarsi sul silenzio di Dio in un mondo disperato. Il silenzio di Dio che si rispecchia nell’afasia dell’umanità. Un duplice silenzio che in questo film risulta assordante. In effetti, i critici di cui vi parlavo, hanno ragione. Non c’è nessuna pietà in questo film. Soprattutto per noi. |
