Here

Here di Robert Zemeckis pone a tema due disincanti. E si fonda su un’illusione.

Si comincia dall’inizio, cioè dalla fine. Due sedie vuote nell’interno spoglio di una casa che sta per essere venduta sfumano su una palude primordiale dove scorrazzano branchi di dinosauri; l’orizzonte diventa di fuoco e la catastrofe giunta dal cielo incendia la terra che si trasforma in un deserto di roccia. Poi il tempo accelera vorticosamente, dopo le glaciazioni torna la vegetazione, un cerbiatto è inseguito dalle frecce di un indigeno, viene edificata sullo sfondo un’austera villa coloniale, sferragliano le prime automobili mentre si avviano il lavori di fondazione della “casa”, il campo aperto si racchiude nello spazio di una finestra sull’esterno, ma ciò che interessa di più è l’interno borghese, un salotto che muta con il mutare delle mode e delle tecnologie mentre quattro famiglie diverse si succedono dall’inizio del ‘900 fino al nuovo millennio, alla pandemia e alle tensioni del black lives matter. Tutto sotto lo sguardo immobile della camera che non cessa di inquadrare pietrificata sempre quell’identica porzione di spazio dove, come le immagini proiettate da una lanterna magica sul fondo fisso del muro bianco, ere geologiche e generazioni si accavallano scorrendo, ma anche fluttuanti cambiano di posto, si sovrappongono, si invertono, corrono avanti e a ritroso senza apparente soluzione di continuità. Animando con grande abilità registica e con un uso sapiente delle nuove tecnologie digitali la scelta creativa della graphic novel di Richard McGuire, Zemeckis ritaglia nel luogo statico del salotto borghese (già palude, già bosco ecc.) dei riquadri geometrici da cui zampilla il passato o il futuro, a volte in compresenza con il presente, a volte tracimando dalla cornice ed invadendo lo spazio dello schermo che si tramuta nella nuova età secondo connessioni ora simboliche, ora strampalate, ora, purtroppo, scopertamente prevedibili. La danza dei tempi ha però un suo ritmo, con accelerazioni e sospensioni, un suo ondeggiare ipnotico in cui i personaggi come in un gioco d’ombre cinesi appaiono per poi scomparire e riapparire di nuovo nello stesso spazio incantato. Ma non ci si deve ingannare, quello che vediamo è lo spazio del disincanto.

Il primo disinganno è di natura metafisica e ha che fare con la natura del tempo. Nelle prime inquadrature si dimentica subito il vertiginoso salto all’indietro per essere assorbiti dal succedersi delle ere e poi dalla progressione degli anni, dall’invecchiare dei protagonisti e dal subentrare di nuove figure mentre  il tempo come una freccia inesorabile si lancia verso il futuro. Uno dei personaggi che abitano la casa, nei primi anni del ‘900 è invasato per le nuove fantastiche macchine volanti. Ne acquista addirittura una, suscitando le ire della moglie. È proiettato fiducioso ed intrepido verso un domani radioso, cavalcando l’onda del progresso. Ma per Zemeckis di Here il progresso è un’allucinazione come anche il cambiamento. Non solo lo spazio inquadrato è claustrofobico, chiuso su se stesso, ma anche lo scorrere del tempo è illusorio: tutto ritorna eternamente uguale: gli amplessi dei giovani teenagers degli anni’60 sfumano sugli amori dei pellerossa precolombiani, le movenze sincopate del boogie anteguerra duettano con le contorsioni sfrenate della disco music anni ’80, gli attriti fra Benjamin Franklin e il figlio William si riproducono rovesciati nelle tensioni fra la generazione dei padri che hanno fatto la II guerra mondiale e vogliono per i figli un futuro ordinato di tranquilla stabilità e i figli che aspirano ad una libertà creativa, e tutto cambia per ritornare poi uguale: amori, matrimoni, nascite, figli che crescono, sordi conflitti intergenerazionali, genitori che invecchiano, morti, financo pestilenze e catastrofi naturali. Non sembra però manifestarsi, di fronte a questa processione dello “Stesso”, l’angoscia che fu, ad esempio, di Schopenhauer per un destino sempre uguale. Dalla narrazione di Zemeckis è espunta ogni tensione e conflittualità fra i tempi, che era uno dei temi dominanti della Graphic Novel originaria, e l’esorcizzazione del cambiamento ha un effetto pacificante. O forse sarebbe meglio dire di composta rassegnazione. Anche il ritorno del rimosso, la scoperta di un cimitero indiano sotto le fondamenta della casa, non produce nessun effetto perturbante, solo la spenta meraviglia di una madre di famiglia ormai avviata verso il declino fisico e mentale. E qui si innesta l’altro disinganno. Mano a mano che il girotondo dei passati e dei futuri scardina la linearità del tempo, emerge il nucleo centrale del racconto volutamente scombinato di Zemeckis, ciò che fa apparire – e questo è  il primo evidente limite del film – di contorno e accessorie le vicende che fluttuano attorno a questo centro. Dalla fine della guerra, fino al nuovo secolo, la famiglia Young abiterà stabilmente per due generazioni la casa: sono gli anni in cui si afferma sempre di più e poi entra in crisi l’american way of life, gli anni delle grandi opportunità economiche e delle aspirazioni di libertà, anni in cui si rafforza il mito del self made man, ma anche il sogno di una nuova creatività che spezzi i vincoli di un passato autoritario per proiettarsi verso nuove frontiere: dall’anarchia hippy all’utopia tecnologica e libertaria della West Coast. Di tutto questo, come dei grandi sconvolgimenti epocali, dalla guerra del Vietnam all’89, dal crollo delle torri gemelle alla crisi del ’2008, poco si avverte nella casa, solo a tratti l’offuscato riflesso, un brusio di fondo nelle trasmissioni televisive. La casa, la rassicurante e protettiva casa americana, funziona fin troppo bene come rifugio riparato dalle inside del mondo tanto da trasformarsi in prigione. Non si può non cogliere l’inconsapevole risvolto ironico delle parole della giovane Margaret (Robin Wright) che, allo sbocciare dell’amore per Richard (Tom Hanks), il giovane rampollo di casa Young, esprimerà il desiderio di passare tutta la vita assieme a lui in quella casa. Il rischio dei sogni è che si avverino. Per i successivi decenni Margaret, sposata con Richard, sarà costretta a convivere con la famiglia del giovane. In un’America dove il valore dell’indipendenza individuale, la capacità imprenditoriale e la possibilità sempre aperta di mobilità spaziale si affermano come saldi principi costitutivi, la famiglia Young appare, con la sua staticità guardinga e timorosa, un po’ come il lato oscuro, come il fondo rimosso. I sogni del ragazzo di intraprendere la carriera artistica naufragheranno miseramente come erano naufragate le aspirazioni di successo nel lavoro del padre, ritorneranno le stesse frustrazioni, le stesse insicurezze, la stessa paura del cambiamento e delle incognite a questo connesse, il peso delle responsabilità della famiglia (non è un caso che nel corso dei decenni gli unici abitanti spensierati e felici della casa saranno due giovani amanti senza figli)  il vuoto di una vita sempre uguale, lo sconforto di comprendere solo alla fine dell’esistenza che “la preoccupazione non allontana le disgrazie”, forse le rende solo più beffarde.

Zemeckis è più volte ritornato nel suo cinema a riflettere sulla natura del tempo, cercando di scardinarne la percezione ordinaria. In Forrest Gump, nell’intersezione fra la grande storia e la piccola cronaca intima, aveva cercato di sabotarne l’epicità; in Ritorno al futuro, giocando con le biforcazioni dell’ucronia, aveva messo in crisi la sua necessarietà a posteriori per cui ciò che è accaduto ed ha portato all’oggi non avrebbe potuto che verificarsi così come è avvenuto, secondo un ordine deterministico, iscritto nella logica stessa delle cose. Qui Zemeckis sembra invece ripiegare su una visione più conservatrice e malinconicamente disincantata. Sul futuro incombono oscure minacce e l’ultima possibilità rimasta per un mondo che invecchia sembra quella di ripiegarsi nel ricordo. “Gli anni migliori della nostra vita”… che, in effetti, quando scorrevano inconcludenti nel passato erano monotoni e vuoti non meno del presente, ma che ora, per il fatto stesso di essere ormai lontani nel tempo, si colorano della patina agrodolce della nostalgia. Forse, sta proprio in questa amara constatazione il lato più convincente dell’opera di Zemeckis, a patto però di riconoscere che il sentimento sfumato di disillusione che attraversa il film poggia su un’illusione. Quella di poter assistere da una posizione neutrale – fuori dal tempo – allo svolgersi sempre uguale degli accadimenti che si susseguono. La macchina da presa registra lo scorrere degli eventi, il loro mescolarsi e confondersi, ma sempre da un punto di vista neutrale, astratto dal flusso. La sua fissità rinuncia a porsi in gioco, a partecipare alla danza, fissa le continuità, le analogie o le opposizioni scontate, che confermano per contrasto l’uniformità del quadro. Tutta l’operazione risulta così, man, mano che il suo corso si dipana e chiarisce come la dimostrazione cogente di un assunto di partenza, solo che lo svolgimento, a questo punto, appare  troppo meccanico e prevedibile, troppo programmato e cerebrale per suscitare un reale coinvolgimento emotivo. E potrebbe essere anche una coraggiosa scelta di regia, la rigorosa coerenza di un esperimento, ma allora Zemeckis, e qui appare il secondo limite del film, avrebbe dovuto rinunciare alla tentazione di titillare emozioni a comando, secondo scansioni pianificate, nemmeno ci si trovasse in una scontata soap (il ripetersi dei pranzi del ringraziamento, le ricorrenti confessioni di inadeguatezza dei personaggi principali, le disgrazie dell’incombere della vecchiaia). È quello che accade anche con i volti di Tom Hanks e Robin Wright che tornano ragazzi grazie all’impiego massivo dell’A.I. ma risulta lampante l’artificiale illusione di giovinezza (come anche, viene da sospettare, l’operazione di marketing) che, al massimo, interagisce con i nostri ricordi producendo un  bizzarro straniamento, ma nessuna partecipazione emotiva. Quando, nella sequenza conclusiva, la macchina finalmente si muove, aggirando i protagonisti, scavalcando il campo e inquadrando l’esterno della casa è ormai troppo tardi e l’impiego di una sdolcinata e sinceramente inascoltabile musica di sottofondo cerca inutilmente di supplire con un’iniezione di facile sentimentalismo a quel mondo vibrante di affetti che si è smarrito fra i riquadri mobili di una inquadratura fissa.

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