Thor: Love and Thunder

Riusciranno i blockbuster a salvare il cinema? Seconda puntata

L’uomo folle di Nietzsche annunciava la morte di Dio, precisando che eravamo stati noi ad ucciderlo. Un certo Gorr (Christian Bale), fedele invasato di una divinità minore e strafottente, quando si accorge che Epicuro aveva perfettamente ragione nel sostenere che gli dei, se mai esistessero, sarebbero del tutto indifferenti a noi e soprattutto che non c’è nessuna ricompensa futura, ma solo il nulla eterno, invece di rallegrarsene, si indispettisce e, trovata lì per lì una necrospada, decide di mettere in atto il proposito del filosofo di Röcken. Solo che, visto che vive nell’universo politeista della Marvel, avrà il suo bel da fare, dato che da quelle parti ci sono più divinità che nel Pantheon indù (per quello una stima prudente parla di 33 milioni di dei). Il nostro non si scoraggia e dopo aver preso un po’ la mano con numi minori, comincia a mirare al bersaglio grosso puntando su Asgard che si è trasformata in un qualche episodio precedente in un villaggio turistico. Siccome il film è prodotto dalla Marvel, propaggine della Disney, il cattivo, che come ogni cattivo che si rispetti è anche orripilante, rapisce i bambini degli dei per attirare Thor in una trappola (bisogna pur far fare qualcosa ai piccoletti). Gli va di lusso perché di Thor se ne trova due, l’originale – reduce da un periodo di depressione e di bulimia che l’aveva ridotto ad un flaccido grassone – e la bella Jenny Foster (Natalie Portman), scomparsa dai radar qualche episodio fa perché, lo sappiamo ora, affetta da un cancro terminale. Jenny era stata richiamata dai frammenti del martello sacro di Thor – perché? meglio non indagare – che magicamente si ricompattano per riformare il poderoso Mjolnir che a sua volta trasforma la bella Jenny nel Potente Thor, così chiamata in disprezzo di ogni politica linguistica di genere (certo che Thora era peggio di assessora). Jenny lo spiega con dovizia di particolari a Thor e alla valchiria nera regina di Asgard, loro non fanno una piega e chi siamo noi per obiettare qualcosa. Nonostante il raddoppio dei Thor, quello ufficiale non si sente però abbastanza in forze per combattere contro il malvagio e così, solcando l’universo con una nave vichinga trainata da due enormi caproni selvaggi (i caproni non volano direte voi, giusta osservazione, infatti l’ascia magica di Thor che ha sostituito il Mjolnir proietta un ponte di luce arcobaleno su cui trottano le bestiole) Thor giunge in una specie di Las Vegas degli dei per reclutare un po’ di contractor per la sua battaglia. Qui Taika Waititi avrebbe potuto strafare evocando Gesù a capo della combriccola, ma il politicaly correct impera e così ci si deve accontentare di Russel Crowe nei panni di uno Zeus bolso, egoista ed arrogante, che per altro è piuttosto divertente nei passi di danza che accenna per scendere dal suo trono aereo. Per nulla blandito dai salamelecchi adulatori del dio nordico, anzi sinceramente infastidito dalla improvvisata, Zeus, per il piacere di dee e ninfe, ma perché no, anche suo personale, vista l’allure decadente da basso impero della patria degli dei, denuda Thor che aveva precedentemente incatenato, come nella migliore tradizione del bondage. Il pubblico al cinema si gusta solo il sedere di Chris Hemsworth a cui, tanto per dire, le terga del David di Donatello gli fanno un baffo, mentre il lato A, che suscita svenimenti e soffocati “Mariavergine!” da parte delle ninfette di Zeus, rimane occultato. Del resto siamo o non siamo in fascia protetta. Morale: Thor uccide Zeus con il suo stesso fulmine (niente paura, è immortale, quindi lo ritroveremo) che trafuga per la battaglia finale con il cattivo: come sempre la parte più spettacolare, ma anche più noiosetta e scontata dell’avventura anche perché tutti i tasselli (come i pezzi del martello magico) devono tornare al loro posto. Jenny, togliersi dai piedi perché, insomma, di Thor ce n’è uno solo e poi: come si fa a fare il prossimo film della serie con Thor che litiga con la sua signora per chi porta fuori la spazzatura? Il cattivo deve in un qualche modo redimersi evitando di presentarsi come l’incarnazione del male. C’è una vena di agostinismo nei film della Marvel, il male compiaciuto e gratuito, il male metafisico non esiste, il male è solo una privazione di bene dovuta alle cattive compagnie o ad un comprensibile risentimento per i soprusi subiti. Gorr infatti si era impermalosito contro le divinità perché gli era morta l’amata figlioletta e così, davanti alla potenza suprema dell’universo, un attimo prima di morire, chiede la resurrezione della bimba, dando il destro a Thor per adottarla, iniziandola ai massacri dei cattivi in onore del babbo. Poi nei titoli di coda gli agganci per le prossime puntate. Buona pedagogia per il pubblico che così evita di darsela a gambe appena appare il The End e si sciroppa giustamente tutti i titoli di coda.

In conclusione? Non facciamo gli schizzinosi: Waititi ha rigenerato, nei due episodi della saga che ha condotto, un genere bollito grazie ad inserti di commedia pop-demenziale, guardandosi bene però dal mandare tutto in vacca per non scivolare nell’effetto grossolano alla Mel Brooks. Lamentarsi, come si è letto, che ogni scena è autoreferenziale come un filmino di tick tock, fa molto boomers (categoria a cui, per altro, orgogliosamente appartengo) perché l’estetica videoclip e le contaminazioni fra cinema e videogiochi digitali sono ormai roba da manuali di storia dell’arte del liceo. Il problema è un altro: sottotraccia i paletti Marvel-Diseny si vedono tutti e poco vale l’accelerazione nella (misurata) follia strabiliante per occultarli. E questo forse non dispiace troppo a Waititi che anche qui, come pure accade nelle sue opere migliori come JoJo Rabbit, non allontana mai del tutto il sospetto di una certa carineria un po’ furbetta.

Per carità, le due ore e passa scorrono via abbastanza leggere (soprattutto se si ha meno di 11 anni) solo che, dopo Thor Ragnarok e questo Love and Thunder, sembra che ormai anche questa formula stia arrivando a fine corsa.

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