Il capo perfetto

Il film ha un inizio sinistro: la prima inquadratura dei cancelli della fabbrica, dove si svolgerà gran parte della vicenda, ci mostra un fregio che richiama, se non nel contenuto nella forma, in modo irritante la famigerata scritta Arbeit Macht Frei dei lager nazisti. In un intervista a El Pais il regista, Fernando Leon de Aranoa, immagino sfoderando sul bel volto affilato e barbuto il suo candido sorriso ironico, aveva parlato di casualità, negando ogni richiamo esplicito. Ma chi gli crede…
In effetti, però, la prima parte del film sembra disdire in modo rassicurante quella prima urticante impressione. Il buen patron della ditta Blanco, uno strepitoso Bardem, fa di tutto per smentire l’analisi marxiana che spiega come i rapporti di lavoro nel mondo capitalistico siano ridotti alla pura logica dello sfruttamento. Julio Blanco/Javier Bardem è sollecito con in suoi dipendenti, cortese senza essere formale nelle relazioni, amorevole con il personale (soprattutto con le giovani stagiste), promotore attivo dell’armonia nel lavoro di squadra, sinceramente interessato alla serenità dei suoi lavoratori. Forse un po’ troppo. Quello che si configura fin dalle prima scene è l’esercizio di ciò che Michel Foucault avrebbe chiamato un potere pastorale, principio di autorità che, dall’antico magistero della chiesa, si è poi diffuso e consolidato in modo secolarizzato nelle nostre società post-moderne. Un potere benevolo, preoccupato per il benessere e la sicurezza del proprio gregge, il quale è però, proprio per questo, sottoposto ad un controllo attento, benché discreto, pervasivo. L’ufficio di Blanco, nella sua fabbrica, si trova in posizione sopraelevata rispetto ai diversi reparti del capannone, da lì vede, sorveglia, interviene, con tatto e prontamente, per sedare attriti e tensioni. Il potere pastorale non spersonalizza i propri sottoposti, riducendoli a meri strumenti della produzione, ma è, a suo modo, proprio al fine di accentuare il controllo, individualizzante. Se qualche ingranaggio della macchina si inceppa, un manager di Blanco va in tilt per problemi famigliari, ecco subito che il buen patron si prodiga, in modo un po’ invadente, bisogna riconoscerlo, per risolverli. Cerca un rapporto a tu per tu. Pretende, seppur con fare assieme soave e insinuante, la verità. Solo che basta il comportamento di Bardem, che esibisce partecipata comprensione per il sottoposto, ma mostra nello stesso tempo, attraverso tutta una serie di piccoli segnali di mimica facciale e di postura, fastidio per l’inconveniente e sufficiente indifferenza verso il poveretto, per far scattare il riso nel pirandelliano avvertimento del contrario. Il meccanismo si è innescato e per tutto il film procederà in un crescendo parallelo all’insorgere di contrattempi, ostacoli, infortuni che sembrano turbare l’equilibrio (valore imprescindibile in una fabbrica di bilance) dell’azienda di Blanco e soprattutto compromettere il raggiungimento di un ambito premio all’efficienza: un impiegato licenziato si mette a contestare rumorosamente il padrone fuori dall’azienda, una complicazione inaspettata con una bella stagista, screzi e ripicche fra impiegati, il rischio che emergano certi affari piuttosto loschi. Così, mano a mano che seguendo il ritmo serrato imposto dalla regia, si accumulano gli imprevisti, dall’avvertimento del contrario si passa, seguendo con precisione la formula pirandelliana, al sentimento del contrario e comincia a diventare chiara anche la citazione iniziale. Se l’infame scritta nazista esprimeva, attraverso un antifrasi scellerata, l’opposto di quello che diceva e quindi la totale disumanizzazione dei prigionieri, il costante richiamo, che svetta anche nell’insegna della fabbrica, all’equilibrio, principio di armonia e giustizia del micorcosmo dell’azienda di Blanco, rinvia invece ad un mondo ferino dove la tradizionale lotta di classe si è polverizzata in una serie di conflitti anarchici, benché tuttavia funzionali al capitale. I rapporti interpersonali sono sempre e comunque rapporti di potere all’interno dei quali ciascuno, non solo Blanco, cerca di affermarsi e sopraffare il prossimo (emblematica la terribile scena iniziale, apparentemente slegata dal contesto) spesso senza nessuna finalità manifesta se non il semplice esercizio della forza sull’altro. Esemplare, in questo senso, è la storia dell’impiegato ribelle che, inizialmente, combatte per il riconoscimento dei suoi diritti, iscrivendo la sua lotta in una rivendicazione sociale più ampia, ma quando scopre con perverso piacere che Blanco lo teme ed è disposto a venire a patti, rinuncia ad ogni obiettivo razionale (la rintegrazione nel suo posto di lavoro, il miglioramento della sua condizione economica) per continuare ad esercitare la sua fragile posizione di potere. Se Blanco mantiene una certa superiorità padronale è solo perché non cade nella trappola di autoingannare se stesso mentre inganna gli altri, illudendosi di combattere in nome di principi superiori, dato che è sempre cosciente della sua assoluta mancanza di coscienza. All’interno di questo scenario, lì dove non c’è contrapposizione manifesta, possono stringersi solo precarie e infide alleanze, nate da un ridisegnarsi dei rapporti di forza e basate su temporanee convergenze di interessi, come quella fra Blanco e il magazziniere arabo, o servili rapporti di vassallaggio. E ovviamente, ciascun rapporto, giocato all’interno di una hegeliana relazione servo padrone, è sempre sul punto di rovesciarsi dialetticamente, come accade a quello che si stringe fra Blanco e la bella stagista. E si continua a ridere, ma il riso si fa sempre più amaro.
Leon de Aranoa aveva già, vent’anni fa, certificato con lo struggente “I lunedì al sole” la fine della lotta di classe, conclusa, non con una consolante pacificazione, ma in seguito alla spietata vittoria del capitale. Agli sconfitti, emarginati nell’umiliante condizione di esercito di lavoratori di riserva di cui nessuno aveva più bisogno, mantenuti dall’elemosina di magri sussidi e spiaggiati nel vuoto delle loro esistenze rese inutili, rimaneva però il valore dell’amicizia e della solidarietà fra gli ultimi. L’unica forma di solidarietà che ci mostra Leon de Aranoa in questo film è quella che surreale si stringe fra l’impiegato ribelle e un pacioso sorvegliante, guardia dell’ingresso della fabbrica, collaborazione solidale che nasce per motivi poetici, visto che il poliziotto dispensa preziosi consigli, non tanto di contenuto, ma metrici e stilistici al compagno, tanto irriducibile, quanto poco versato nel comporre slogan contro il capitale in rima baciata o assonante. L’arte per l’arte come ultimo orizzonte della solidarietà di classe .
Il regista, sempre nell’intervista a El Pais, di fronte alla domanda del giornalista che gli chiedeva come mai, 20 anni dopo “I lunedì al sole”, la sua visione fosse diventata ancora più cinica e pessimista aveva risposto: “Non si tratta di ottimismo o pessimismo: il pessimista è solo un ottimista ben informato”.

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