Pansy è prigioniera della sua rabbia. Un’ira funesta, nel suo eccesso omerica, se non fosse meschina e risentita, che la donna riversa sugli altri come un fiume in piena, compiaciuto e logorroico, di insinuazioni, villanie, insulti. Una coda al supermercato, uno scambio di battute in un parcheggio, un giro in un negozio di mobili, una visita di controllo dentistica sono tutte occasioni per un’esplosione immotivata di collera. C’è un gusto perverso di Pansy nell’aggressione preventiva, senza nessun pretesto che la cortesia, subito accusata di ipocrisia e doppiezza, dei malcapitati commessi, clienti, dottori che ignari l’approcciano. Una intemperanza iperbolica che lascia sconcertati, non priva di risvolti comici nella sua sfrenatezza disinibita, il tripudio del politically incorrect, che porta Pansy a rilanciare con rincarata pervicacia i suoi attacchi gratuiti tanto più i suoi interlocutori allibiti cercano di calmarla e contenerla. Ma se le situazioni pubbliche in cui si manifesta il furore tagliente di Pansy possono strappare nella loro esagerazione reiterata un sorriso allo spettatore e forse far nascere la sotterranea solidarietà dell’humour perché sdoganano – senza farci pagar pegno -quella carica di aggressività che noi comuni mortali rimuoviamo prudentemente, altro è il discorso che riguarda i suoi rapporti familiari. Pansy vive in una villetta di periferia che la donna pulisce maniacalmente e dove regna un ordine asettico e cimiteriale. Qui soggetti al suo rancore rabbioso Curtley (David Webber) il marito stoico e Moses (Twaine Barret), il figlio dagli evidenti tratti autistici, si rifugiano in un silenzio impotente per cercare di sfuggire ai suoi strali di fronte ai quali non può che spezzarsi ogni minima parvenza di complicità. Pansy ha una sorella, Chantelle (Michelle Austin) che sembra (forse in modo un po’ schematico) il suo opposto speculare. Come Pansy è occupata solo dal fiele che secerne, Chantelle lavora alacremente nel suo negozio ben avviato di parrucchiera, vive in allegria con le figlie in un appartamento tanto caotico quanto colorato ed è l’unica che non è scalfita dall’acredine della sorella che riesce a smussare con un’ironia che solo da lei Pansy sembra, se non accettare, quanto meno tollerare.
Mike Leigh, dopo l’incursione nel biopic (Turner) e nel film storico (Peterloo), torna a scavare nel malessere profondo di un ceto medio sperduto e impaurito (siamo nella comunità black inglese, ma si capisce presto che i caratteri che il regista di Manchester tratteggia sono, purtroppo, universali) e non ci fa nessuno sconto, presentandoci uno dei personaggi più irritanti e intrattabili della sua pluridecennale indagine sulla società contemporanea. Ma se la prima parte del film appare fin troppo concentrata in modo ossessivo sulle ossessioni di Pansy, è nella seconda che lo studio di Leigh allarga la sua prospettiva, diventando nello stesso tempo più acuto e incisivo. È proprio nel rapporto fra le sorelle, nel ricordo – anche questo risentito – di Pansy della madre e nelle dinamiche che collegano le due famiglie riunite in un pranzo comune che per immediatezza, tensione, dolore e violenza repressa non può non far venire in mente l’analoga straordinaria situazione di Segreti e Bugie, che la figura di Pansy comincia ad assumere spessore e profondità, appiattite invece dal livore incontrollato che dominava la prima parte del film. La rabbia costituisce infatti solo il recinto esterno in cui è carcerata Pansy. Più intima, nascosta, opprimente si cela una paura quasi metafisica nella sua pervasività pietrificante, qualcosa che infesta dall’interno la donna, l’irrigidisce, impedendogli ogni altro impulso emotivo, ma nello stesso tempo, con potenza ossimorica, la spinge ad una reazione esagitata e difensiva che scarica verso l’esterno l’aggressività accumulata dall’ansia. Non possono non venire in mente i topolini di Laborit, descritti magistralmente da Mon oncle d’Amerique di Resnais, che, chiusi in una gabbia e condizionati a ricevere una scossa elettrica dolorosa e ingiustificata, non appena si ripresentano le condizioni che anticipano l’impulso (l’accendersi di una luce rossa nella gabbia) si mordono rabbiosi l’un l’altro per sfogare l’angoscia. Come Marianne Jean Baptiste era stata bravissima nella prima parte del film a impersonare un’erinni esagitata in lotta contro il mondo, risulta addirittura perturbante nel seguito nella sua capacità di sottolineare la paralisi che blocca Pansy, impedendogli quasi di respirare, di muoversi, di uscire all’esterno delle sbarre che la serrano e dietro cui inveisce rabbiosa e che solo un atto d’amore, gratuito come era gratuito il suo odio, potrebbe scardinare. Un atto che, come dimostra l’ultima straziante sequenza, non può giungere.
Paura, rancore, odio: Leigh ha il merito di mostrare come queste passioni tristi si incatenino l’una sull’altra determinando una patologia mortale che, non bisogna essere degli indovini per capirlo, ha molto a che fare con il mondo aspro e cupo in cui oggi viviamo. Forse qualcuno potrebbe imputare al regista inglese un mancato scavo sulle motivazioni psicologiche che determinano le reazioni paranoiche di Pansy, ma questo probabilmente dipende da una serie di fattori. Da un lato, dall’approccio stesso al lavoro registico di Leigh che gira senza una sceneggiatura pianificata al dettaglio, ma costruendo i suoi personaggi anche e soprattutto attraverso la collaborazione con i suoi attori, chiamati direttamente in un dialogo costante a elaborare lo sviluppo delle situazioni in scena a partire da un canovaccio appena abbozzato. Ciò che interessa maggiormente a Leigh, più del dipanarsi ordinato di una trama verso un compimento decisivo, sono le sfumature d’espressione, l’accavallarsi degli stati d’animo, la combinazione di interazioni che crescono e si infittiscono fra i diversi personaggi. È inutile cercare turning point nel cinema di Leigh, anche se spesso ci si imbatte in situazioni di acme drammatico che non paiono però funzionali ad una risoluzione ponderata dell’intreccio, ma a complicarlo ulteriormente ovvero, in alcuni casi, come proprio in Scomode verità, a cristallizzarlo, indicando l’impossibilità manifesta di un superamento delle tensioni in atto. Un cinema che dà un enorme spazio agli attori – come sempre tutti di una bravura impressionante – con una regia che si ritrae, lavorando con sobrietà in sottrazione, utilizzando solo gli elementi essenziali del fare cinematografico: la frontalità dell’inquadratura, l’alternanza di campi lunghi e contro campi, i lenti movimenti di macchina a seguire i personaggi senza che si avverta in nessun momento l’intrusività dell’occhio cinematografico. D’altra parte, c’è a monte forse anche una scelta deliberata di non giustificare attraverso una puntuale indagine psicologica il terrore esistenziale che divora dall’interno Pansy, per mostrarlo in tutta la sua tragica irrazionalità, quasi a rendere più emblematica e universale la sua figura.
Indisponente e molesto come la sua protagonista, il film del regista inglese si chiude con uno dei finali più disperanti degli ultimi anni, ma Leigh è troppo intelligente e acuto per essere pedissequamente coerente con i suoi presupposti. Anche se allo spettatore rimarrà probabilmente impresso come una lama nella carne viva il montaggio alternato dell’ultima sequenza che ritrae due paralisi speculari e disperate, c’è però un altro, nascosto finale alternativo, un campo lungo che riprende da lontano Moses, sperduto in uno dei suoi pellegrinaggi inconcludenti per la città. Un’inquadratura quasi rubata, muta: dopo tanta rabbia immotivata un atto di gentilezza delicato, gratuito, probabilmente effimero. Non confondetelo con la speranza. Forse solo una possibilità.
