A strange way of life

In una intervista rilasciata dopo l’uscita del film, Almodovar spiegava che la scelta di lavorare su un cortometraggio lo aveva attratto per il grande margine di libertà che questa forma di espressione concede, rispetto ad una pellicola di lunghezza maggiore. A prima vista la dichiarazione può risultare spiazzante. Non solo la minor durata, che lascia molto meno spazio allo sviluppo delle situazioni o dei caratteri, ma anche certi vincoli formali impliciti nella struttura di un cortometraggio sembrano indicare l’opposto. Eppure, non appena si vede la giacca charmant verde acceso con cui Silva (Pedro Pascal) si avvicina al villaggio per l’incontro fatale con il suo vecchio amico Jake, accompagnato dalla musica struggente di un fado, si percepisce, forse, quello a cui il grande Pedro alludeva. Intendiamoci, fin dai titoli di testa in formato Spaghetti Western, tutta la grammatica e la sintassi del genere è rispettata. Un cavaliere solitario, attraversando spazi aperti e aspri, giunge in una cittadina sperduta nel deserto, poi l’incontro con il vecchio amico Jacke, un impettito e ruvido Ethan Hawke, ora sceriffo del luogo, ma di cui si intuiscono i trascorsi burrascosi assieme al vecchio compagno, e a seguire le inquadrature sui cinturoni e sulle pistole e poi, via, via che la narrazione si dipana, gli inseguimenti, le sparatorie, il sangue che scorre, financo l’immancabile stallo alla messicana sospeso fra Sergio Leone di Il Bello, il Brutto e il Cattivo e Tarantino de Le iene (o di Pulp Fiction e Bastardi senza Gloria, non mancano certo queste situazioni nel cinema di Quentin). Ma dettagli inizialmente sfuggenti incidono, come abbiamo visto fin dalle prime inquadrature, come un’incrinatura sottile la superficie della narrazione. Perché ad esempio Jake si rivolge a Silva durante la cena dicendogli: “Non guardarmi con quegli occhi”?

In questi casi si usa la formula un po’ trita di “decostruzione del genere” mentre la scelta di Almodovar è decisamente meno accademica (e, sinceramente, molto meno noiosa). Il regista spagnolo, infatti, più che smantellare e ricostruire secondo nuove coordinate un western – operazione ripetuta fin alla noia, tanto che ormai è quasi più affollato il genere “western decostruito” di quello tradizionale – porta in primo piano, esplicita e mette a tema l’omosessualità latente che ha costantemente attraversato il mondo dei film western. Sicuramente, c’erano stati altri esempi, non ultimo anche il caso del Potere del cane di Janet Champion, per non parlare dell’eccessivamente celebrato I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee, ma ciò che interessa Almodovar non è qui indagare sui i processi di rimozione, gli elementi di contesto, le resistenze sociali o la conturbante e difficile scoperta della propria omosessualità in uomini cresciuti nel mito del machismo. Tutto è chiaro, tutto è esplicito, tutto è già stato detto e agito nel film di Almodovar anche se spesso attraverso raffinate elissi: basta però l’inquadratura sul cassetto della biancheria di Jake, che offre un paio di mutande di ricambio all’amico dopo una notte d’amore, per non nutrire molti dubbi. Ciò che interessa ad Almodovar, infatti, non è far cozzare l’universo maschilista del western con la rivelazione di una nuova consapevolezza sessuale nei protagonisti, quanto aggiornare con un nuovo capitolo la sua indagine sulla “legge del desiderio”. Lo si capisce in modo illuminante dal dialogo fra Silva e Jake dopo la notte d’amore, succeduta al loro incontro, vero centro gravitazionale del racconto: la diversa percezione dei ricordi della passione, poi da una parte, la diffidenza e le resistenze di Jake, ma anche, paradossalmente le sue recriminazioni nei confronti dell’amico che ha lasciato passare decenni prima di venirlo a trovare; dall’altra, il calore e la spregiudicatezza di Silva, ma anche la sua ambiguità e, su tutto, la precarietà del futuro, visto anche il carico pendente della difesa di Silva del figlio, accusato di omicidio, che si scontra con la volontà determinata di Jake di assicurare il ragazzo alla giustizia. La tragedia famigliare, che innerverà lo sviluppo successivo della pellicola, costituisce lo sfondo e il pretesto, ma il cuore di questa vicenda ruota attorno allo struggimento per un passato di pienezza e sensualità, allo stupore del presente, che è costernazione, imbarazzo, ma anche eccitazione per un desiderio che si credeva spento nel momento in cui la vita dei due vecchi amici si stava avviando verso il declino, fino all’interrogativo aperto sul futuro. Infatti – come impone la struttura narrativa del corto – un rivolgimento finale spiazza la vicenda, squadernando una conclusione volutamente aperta. Ci potrà essere il rammarico per i nodi che rimangono ancora avviluppati, anche se ognuno è in fondo libero di immaginarsi un possibile sviluppo. Ma è proprio la libertà di non definire necessariamente lo svolgersi completo di una storia, che faccia convergere verso una conclusione le diverse piste del racconto, che permette ad Almodovar di concentrarsi solo su quello che è il suo interesse effettivo: spiare il riaccendersi di un desiderio, esplorare il suo conflitto con gli imperativi etici che lo comprimono, scandagliarne la tensione; in una parola seguire le sue peripezie: Que estranha forma de vida tem este meu coraçao, canta, con delicata pena, Manu Rios all’inizio del film. E Almodovar lo fa con la consueta lucida passione ma anche, come è tipico del suo ultimo cinema, lontano dalle provocazioni e dagli eccessi degli inizi, con rinnovata e sempre più malinconica ironia.

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