“Venticinque letti in un lungo reparto di ospedale dipinto di verde. Per dodici giorni, sono la signora numero 10. Dei quindici aborti spontanei, scoprirò presto che una dozzina sono stati «procurati». C’è voluto solo l’annuncio della signora numero 9 che quello era il suo quinto aborto autoinflitto perché tutte le altre nel reparto iniziassero a parlare. Medici e infermieri sanno tutto, ovviamente, e quindi non usano anestetici. L’operazione è breve, tra i sette e i dodici minuti, ma terribilmente dolorosa. La società si vendica come può.”
Così Genèvieve Seneau raccontava nel 1947, in un articolo uscito nella rivista di Sartre e Simone de Beauvoir, Les Temps Modernes, la sua esperienza in un reparto di ospedale. In modo asciutto, nessuna concessione al patetico. Tanto basta la chiosa finale per dire tutto.
Chissà se Audery Diwan si era ricordata di questo scritto, il suo stile sembra comunque ispirato a questo gelido resoconto. Sono passati una quindicina d’anni, ma niente è cambiato. Anne è una giovane donna di estrazione piccolo borghese, volitiva, insofferente rispetto alle convenzioni, che vede nello studio l’unica possibilità per un riscatto ed una promozione sociale. Una gravidanza non voluta sembra però cancellare ogni speranza. Anne è lucida e decisa. Deve sbarazzarsi del feto. Seguendo la scansione del succedersi incombente delle settimane di gestazione, Anne attraversa tutti i passaggi degradanti di questa terribile situazione, in una Francia dove l’aborto è equiparato all’infanticidio. Le scelte della regista hanno il merito di seguire con coerenza certe opzioni stilistiche marcate. Abbondanza di primi piani sul volto tenace di Anne, la camera che segue la sua nuca (ancora una volta scolastica dardenniana) o che l’anticipa in carrelli a retrocedere, l’uso persistente di obiettivi che, mettendo a fuoco Anne, sfumano le figure sullo sfondo per sottolineare la solitudine della giovane. La solitudine, ancor più della riprovazione sociale, è la condanna a cui è destinata Anne che non riceve nessuna solidarietà dalle amiche e dal suo ambiente, tutti inorriditi davanti alla sua determinazione. Ma sarebbe sbagliato pensare che la regista voglia giocare su una scontata empatizzazione fra la sua protagonista e lo spettatore. Per questo, ancora una volta, il vezzo italiano di cambiare il titolo ai film stranieri tradisce delle intenzioni profonde. “La scelta di Anne” soggettivizza il punto di vista che la Diwan vuole invece oggettivo, neutro: “L’evenement”. L’onestà con cui la regista rimane ancorata con puntiglio ai suoi presupposti stilistici la porta così a rinunciare ad ogni facile psicologismo per seguire in modo freddo ed asettico la china della vicenda. Nessun passaggio obbligato c’è risparmiato, anche se non c’è compiacimento nell’insistenza con cui sono riportati i particolari più sordidi dei tentativi di aborto di Anne (forse un pochino nella facile stigmatizzazione delle figure maschili).
Tutto bene quindi? Insomma. Premetto che sono maschio, adulto (anzi un po’ passatello), eterosessuale, bianco, occidentale (quindi il peggio che c’è in circolazione) di conseguenza quanto segue può facilmente essere accusato di ideologismo (escusatio non petita…), ma in questa ricerca di stringatezza, di arida obiettività manca qualcosa che ha reso straordinario il cinema dei Dardenne e, a monte, di R.Bresson, modelli neppure troppo nascosti della Diwan. La grazia. E non si intende qui tanto il richiamo allo sfondo di un giansenismo laico proprio del cinema dei Dardenne, ma la capacità di cogliere attraverso piccole sfumature, impercettibili variazioni, un’interiorità nascosta, perché mai esplicitamente rivelata, che dà però tutto un diverso spessore ai loro personaggi. Senza questo “non so che” che è “un quasi niente”, ma tiene in sé l’essenziale, come direbbe Jankelevitch, c’è il pericolo che la narrazione assuma un certo tono didascalico, tanto che la stessa recitazione, volutamente asciutta e in constante sottrazione, della pur brava Anamaria Vartolomei, rischia di risultare più manierata che effettivamente emozionante. Insomma i 7 minuti di applausi in sala a Venezia per il film sono meritati, soprattutto per le intenzioni.
