Il signore delle formiche

La società delle formiche ha a lungo affascinato studiosi e scrittori. Con il suo ordine, basato sul principio solidale di una collaborazione universale per il bene comune ha suggerito immagini utopiche di società perfettamente organizzate e funzionali. Utopie che potevano facilmente trasformarsi in distopie se si assumeva però il punto di vista della singolarità del soggetto individuale, schiacciato dal movimento convergente del gruppo, sacrificato sull’altare della (supposta) utilità generale che molto spesso è solo il pregiudizio comune. Il signore delle formiche è in fin dei conti un titolo ironico, sembrerebbe indicare la neutralità distaccata dello sguardo del ricercatore che studia in modo asettico le dinamica del mondo dei piccoli insetti – quello di Aldo Braibanti (Luigi Lo Cascio) nella prima parte del film – mentre ne è, al contrario, sovrastato, schiacciato dalla pressione conformistica comune che non accetta spinte devianti.
Aldo Bribanti è un raffinato intellettuale, drammaturgo, poeta, antifascista convinto, vicino al partito comunista. Negli anni ’60 conduceva un laboratorio/comune teatrale nei pressi di Piacenza dove conquistati dal carisma, in vero dispotico, del professore affluiscono giovani entusiasti della nuova esperienza che apre una prospettiva di libertà creativa nella vita sonnacchiosa e bigotta della provincia. Fra questi il giovane Ettore (Leonardo Maltese) che affascinato da Bribanti stringerà con lui un sincero rapporto di affinità elettive e tenero amore. La relazione non poteva però essere accettata nel contesto dell’Italia codina e perbenista del tempo (del tempo?). La famiglia di Ettore lo rapisce e, trattandolo come un pazzo, lo rinchiude cercando di rinsavirlo a colpi di elettroshock, mentre – visto che Ettore è maggiorenne e attorno all’omosessualità vige un tabù assoluto che ne impedisce la citazione anche nei codici penali – Aldo verrà accusato per il reato impalpabile, previsto dalle leggi fasciste, di plagio. Il primo e l’unico condannato nella storia repubblicana per questa indefinibile colpa (non a caso il reato sarà cancellato dai codici pochi anni dopo).
Mettiamo le mani avanti. Amelio ha un gran merito nel ricordare questa vergognosa vicenda di omofobia, facendoci anche capire, fra le righe, come non si tratti solo di una pittoresca evocazione di un passato morto e sepolto dal luminoso progresso morale e civile del paese (?). Ha anche il merito di farlo richiamando alla mente un cinema di impegno civile che aveva caratterizzato alcuni momenti alti della sua carriere di regista (come non ricordare il potente Porte Aperte del 1990 che con Il signore delle formiche stringe diverse analogie).
Mettiamo però le mani avanti. Il film non mi ha convinto, o quanto meno, solo in parte: mi sembra in un qualche modo irrisolto fra scelte di regia discordanti. Amelio si decide per una messa in scena classica, in un qualche modo austera: tempi lunghi delle sequenze, silenzi evocativi, ma nello stesso tempo il direttore della fotografia Luan Ameli Ujkaj avvolge le scene di una luce dorata che rischia di dare un tono artefatto, eccessivamente convenzionale all’ambientazione, per altro, come sempre, molto ben curata. Senza contare che questo tipo di illuminazione, nel codice cinematografico, rinvia spesso ad atmosfere di soffusa nostalgia e non si capisce bene cosa si dovrebbe rimpiangere di quell’epoca. La recitazione degli attori è impeccabile, forse un po’ troppo tanto da sembrare, come nei dialoghi fra Bribanti e Ennio (Elio Germano), un giornalista dell’Unità incaricato di coprire il caso, smaccatamente teatrale. D’altra parte la sobrietà controllata degli interpreti – in questo è decisamente apprezzabile la prova di Lo Cascio, soprattutto durante le fasi del processo – contrasta con certe scelte melodrammatiche di colonna sonora, che rendono più pesante invece che drammatica la narrazione. Il personaggio di Ennio è importante nell’economia generale del film, mostra come la cappa di ottusità e il fastidio per ciò che è considerato diverso sia allegramente trasversale fra le forze politiche del tempo e investa anche il partito comunista. Inoltre il suo approccio caustico inquadra la vicenda in una prospettiva defilata ma incisiva. Ma anche in questo caso certe scelte di sceneggiatura appaiono poco felici. La figura della cugina di Ennio non sembra trovare una giustificazione nella scrittura se non quella di alludere a qualche vicenda storica di sfondo, mentre, ok direte voi, sono quisquilie, ma il fatto di presentare in scena Ennio sempre con un buffo cappello da jazzista di colore, forse giusto per rimarcare il suo carattere anticonvenzionale, appare quanto meno discutibile se non proprio stucchevole.
Certo, a questo punto, potreste anche pensare che il vostro umile recensore sta cercando il pelo sull’uovo e allora forse c’è un motivo più profondo che giustifica il fatto che questo film di Amelio mi sembri irrisolto o forse anche un occasione sprecata. In fin dei conti per tutta la visione non mi ha abbandonato mai l’idea di assistere ad un film a tesi. Per altro, nobili. In cui i personaggi più che suggerire una stratificazione di senso, sembrano spesso incarnare dei ruoli precostituiti. È un limite intrinseco di certo cinema “impegnato” che spesso può essere aggirato solo accentuando la complessità (e l’ambiguità) dei protagonisti, intrecciando e contaminando i punti di vista. Nella prima parte del film, quando la narrazione fra diversi salti temporali torna all’incontro fra Aldo ed Ettore, in effetti, questa via sembra in un qualche modo tracciata, problematizzando lo stesso concetto, poi criminalizzato, di plagio. Non è forse questa una componente propria (e reciproca) di ogni relazione affettiva (non importa se etero od omosessuale)? Ma questa pista è presto abbandonata a favore dell’idilio, quasi ci fosse il timore di non essere abbastanza politiaclly correct.
Ma il bicchiere, è utile ricordarlo, rimane ancora mezzo pieno, non solo grazie all’onestà e al rigore di Amelio, ma anche a momenti alti e commoventi toccati dal film, come la testimonianza di Ettore al processo. Il ragazzo devastato dal programma di “rieducazione” è inchiodato in un doppio vincolo paralizzante per cui o rinnega il suo amore, attestando che c’è stata costrizione, o ogni sua dichiarazione a discolpa di Aldo può essere letta come conferma del plagio e quindi della colpa del professore. Incurante di ogni strategia, Ettore lascia parlare la verità del suo cuore, con una sincerità ed una tenerezza che riescono a spegnere sul nascere ogni rischio di retorica e sentimentalismo che una sequenza del genere poteva comportare. Contribuendo in questo modo, crudele paradosso, alla condanna dell’amante.
Leonardo Maltese, segnatevi questo nome. La più bella sorpresa di questo film.

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