Serre-moi fort

 “Acconsentire alla morte di una persona che amiamo significa, in un certo senso, abbandonarla alla morte. Quello che vorrei mostrare è il divieto che lo spirito di verità ci infligge davanti a questa capitolazione, a questo tradimento”. Così Gabriel Marcel nel Mistero dell’Essere.

Strane peripezie di questa verità che rivendica una insubordinazione infantile contro il principio di realtà e la sua ottusa incombenza, che si ribella al lavoro del lutto che ci vuole costringere alla resa, che ci intima di accettare la morte delle persone che amiamo.

Clarisse se ne va. Dopo aver giocato con  delle foto dei suoi cari, distese capovolte su di un letto, quasi fosse un ingenuo memory dove non si riesce a ricongiungere nessuna immagine, lascia la casa, Marc, il marito addormentato, i figli, cullati dal sonno, che saluta per l’ultima volta. Indugia su un biglietto che non riesce a scrivere. Sale sulla AMC Pacer, la buffa auto degli ultimi fricchettoni anni’70, e forse si ricorda di quando c’era salita la prima volta, la sera in cui conobbe Marc. E parte. Non sa nemmeno lei per dove e forse non sa neppure perché c’è un riflesso pallido di felicità nel suo sconfinato dolore. Un dolore cieco di cui non possiamo immaginare l’abisso. La narrazione sembra così procedere lineare nel montaggio alternato della vita dei famigliari di Clarisse che cercano di metabolizzare l’abbandono della donna (Quando tornerà la mamma, a giorni, fra mesi, mai più?) e il precipitare sofferente di Clarisse. Ma nel contrappunto fra le immagini e le musiche suonate con sempre maggior passione e perizia da Lucie, la figlia che cresce e diventa ragazza, quasi volesse esorcizzare così la scomparsa della madre, scopriamo anche che qualcosa non funziona. Il corso del tempo si contorce, diventa sempre più problematico distinguere i flashback, dalle incursioni del futuro, riconoscere la veglia dal sogno. Jankelevitch sosteneva che l’irreversibilità del tempo è la realtà stessa dell’irreversibilità della morte contro cui il ricordo non può che impegnarsi in una lotta impari. Ricordare non è che un delicato inganno, un ingenua menzogna che ricerca il rimedio nel male perché ogni rammemorare porta con se, assieme ad un balsamo amaro, anche la constatazione della perdita, la traccia che la memoria conserva è la certificazione della sua impotenza davanti alla morte. Ma se è vero questo, allora la possibilità dell’eversione dei tempi che è propria della follia  (o del cinema) può essere il prolungarsi indefinito di questa illusione. Così come l’abbandono può essere anche l’impotente ribellione contro l’irreversibilità, abbandono che si addossa la responsabilità del distacco per lasciare all’altro, all’amato, una possibilità, quantomeno fantasmatica di vita. Non siete voi ad avermi lasciato, sono io che vi lascio per avervi ancora vicino. Sempre Gabriel Marcel, da cui siamo partiti, parlava di due tipi d’amore quello possessivo, che pretende di disporre dell’altro, oggetto della sua passione, e quello oblativo, che si realizza nel dono di sé, come quello di Clarisse che dona una vita seppur irreale nel suo abbandono. Enigmatico, fragile nella sua grazia misteriosa, sempre sul punto di infrangersi, il lavoro di Amalric mitiga le ellissi cerebrali che destrutturano la sua narrazione con l’emozione sincera da cui è pervaso, triste e delicata come il volto dolente di Vicky Krieps (Clarisse), attenua il dolore senza fondo con la leggerezza remota delle musiche di Ravel, Debussy, Rameau, fedele alla sua folle ingiunzione: «Amare una persona significa dire: non   morirai».

 

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