Air

Allora immaginiamo una lista con alcune caratteristiche da spuntare.

Un uomo solo, indipendente, outsider brillante e anticonformista, considerato dagli altri al meglio un originale, se non proprio uno sfigato. C’è!

Quest’uomo insegue un progetto, ha un obiettivo, è mosso da una idea fissa osteggiata dai più perché considerata irrealizzabile, folle, contraria alla logica e al buon senso. C’è!

Un apparato ottuso e conformista che ostacola il progetto dell’eroe, irridendolo. C’è!

La contrapposizione fra le ragioni economiche – grettamente utilitaristiche e ottusamente legate ad una miope analisi del rapporto costi benefici – e la lungimirante capacità di rischiare dell’eroe che è mosso da un afflato ideale (scelta che, per inciso, si rivelerà molto più redditizia della visione tradizionale). C’è!

Una illuminazione, che giunge di improvviso come la fiammella dello Spirito Santo, e mostra all’eroe in modo incontrovertibile la via da seguire. C’è!

Il prevalere dei sentimenti umani, della solidarietà e dell’empatia sulla ricerca del mero profitto, del potere fine a se stesso, delle apparenze vacue. C’è!

Il richiamo ad una storia vera, con le foto nei titoli di coda dei protagonisti reali, preferibilmente in pose che sono riprese in alcune sequenze del film. C’è!

Un ottimo cast di attori, con un ponderato equilibrio fra alcune star riconosciute( Matt Damon, Ben Affleck, Viola Davis) e caratteristi efficaci (Chris Tucker, Tom Papa). C’è!

Bene prendiamo questi elementi, mescoliamoli assieme con l’accessorio di un plot più o meno avvincente – in ultima analisi, data la presenza delle componenti collaudate della struttura, la storia in se stessa è poco importante – impiattiamo il tutto grazie ad una regia come quella di Affleck, accorta nell’assemblare con un buon ritmo  gli ingredienti, meglio poi se si ci aggiunge anche un po’ di autoironia, una strizzata d’occhio allo spettatore che riconosce con piacere il meccanismo collaudato e con piacere sta al gioco. Ed anche (perché no?) un velo di nostalgia per un decennio, gli anni ’80, quando le cose sembravano essere più semplici, come i game boy paragonati alle fantascientifiche play-station odierne. Ed ecco un bel filmone americano (e non c’è nessuna ironia, in questo giudizio, ma solo una constatazione) come Air, la storia di come è stata lanciata la linea di scarpe da basket Air Jordan della Nike. Detto per inciso: Michael Jordan? Non c’è. O meglio si vede solo di spalle o di sfuggita. Buona scelta di regia che, anche qui con una certa ironia, mostra quanto l’icona costruita dal marketing sia solo un simulacro vuoto.

Ora, il fatto che il fulcro attorno a cui dovrebbe ruotare tutta la narrazione sia una casella vuota, sembra anche suggerirci l’impressione che ciò che risulta più interessante non è tanto il film in sé, con la vicenda “reale” che narra, quanto comprendere cosa scatta quando vediamo un film del genere, che pur essendo prevedibile dalla prima all’ultima sequenza, ci diverte comunque (appassionare in effetti è un po’ troppo) per le sue due orette. La risposta, probabilmente, sta nello scoprire che, vedendo un film come Air , ritroviamo lo stesso piacere che avevamo da bambini nel sentire quella stessa favola raccontata infinite volte, il piacere di riconoscere gli stessi particolari ed emozionarci per le stesse situazioni ripetute. È il piacere che provava Ernest, il nipotino di Freud che giocava lanciando infinite volte un rocchetto avvolto in un filo e lo ritirava poi a sé, il piacere di poter operare un riconoscimento, e indirettamente un controllo, su di una realtà altrimenti confusa e contraddittoria. Il piacere di abbandonarci, come spiegava Umberto Eco in Apocalittici ed Integrati, ad un messaggio ad alta ridondanza, un messaggio che non ci presenta certo un ampio e complesso contenuto di informazione da decriptare, ma proprio per questo ci concede una tranquilla isola di riposo rispetto al flusso contrastante e disordinato di shock informativi in cui siamo costantemente immersi. Il relax di poterci accomodare ed indossare un paio di confortevoli scarpe, che sembrano fatte su misura per noi, anche se sappiamo benissimo che sono prodotte in serie.

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