C’è una parola chiave che ci aiuta a capire alcuni aspetti fondamentali della cultura giapponese «ma», termine, come spesso accade, intraducibile in un concetto definito, ma che rinvia invece ad una costellazione di senso. Lo si ritrova, ad esempio, nell’architettura, dove la disposizione degli ambienti, delle soglie, della relazione di continuità e assieme di cesura fra interno ed esterno è detta «madori», letteralmente «organizzare il ma», dove il «ma» può essere così reso con intervallo, framezzo, non un oggetto, ma l’indeterminato che si situa fra una cosa e un altra, fra uno spazio e l’altro, vuoto che è assieme separazione, ma anche condizione di passaggio, sospensione ed anche potenzialità di relazione. In questo senso Drive my car di Hamaguchi potrebbe leggersi come l’esercizio di «organizzare il ma», non tanto negli spazi architettonici, ma fra i diversi personaggi e all’interno di loro stessi.
Yusuke è un regista teatrale sposato ad Oto, un’affascinante sceneggiatrice che lo segue e supporta nel suo lavoro. La coppia è unita da una passione autentica, anche se il loro amore è turbato dal ricordo di una figlia morta in tenerissima età e dall’infedeltà della moglie che Yusuke ha casualmente scoperto, all’insaputa di lei, senza poi avere il coraggio di affrontare assieme l’argomento. Dopo la morte improvvisa di Oto, Yusuke si ritrova a dirigere ad Hiroshima una versione sperimentale di zio Vanja e l’occasione gli permette di lavorare con Koji, il giovane amante della moglie, che, a dispetto dell’età, Yusuke sceglie per la parte stessa di Vanja, ruolo che, nelle precedenti edizioni della pièce, il regista aveva sempre tenuto per sé. In quello stesso frangente Yusuke comincia a conoscere e apprezzare, dopo l’iniziale diffidenza, Misaki, una ragazza precisa ed enigmatica, giovanissima autista (ha l’età che avrebbe dovuto avere la figlia di Yusuke), che guiderà, in base ai protocolli di sicurezza imposti dalla direzione del teatro e nonostante l’iniziale riluttanza del regista, la sua preziosa saab rossa.
La narrazione è così un arcipelago di storie che si complicano con i racconti evocati da Oto durante l’amore con Yusuke e le parole del testo di Chekov che, riascoltate infinite volte in una cassetta registrata con la voce di Oto durante i viaggi in auto di Yusuke e scanditi nelle interminabili prove della pièce, svolgono la funzione, con il loro lascito di rimorsi e rimpianti, di una sorta di coro greco. Quasi un carattere reale, che interagisce con le situazioni e sottolinea i diversi passaggi dell’azione. Ciascun personaggio è chiuso in se stesso come un isola, prossimo, ma separato da un braccio di mare apparentemente inattraversabile dagli altri e questo non solo per il formalismo estremo che contraddistingue le relazioni interpersonali, ma per un’incapacità quasi fisica a manifestare i propri sentimenti, che non è aridità o ipocrisia, ma pudore a rivelare un profondo e lacerante travaglio interiore. Lo sviluppo della narrazione sta proprio nell’articolazione di questa distanza perché il «ma», considerato da un punto di vista temporale, è anche ritmo, respiro, scansione dei processi reciproci di allontanamento e avvicinamento, muoversi nella distanza che è esattamente l’anomalo, ma affascinante e misterioso, ritmo del film, declinato con asciutto rigore da Hamaguchi, senza nessuna concessione, neppure nei momenti di pathos (e ce ne sono) al sentimentalismo. Buona parte del film si svolge nell’abitacolo della saab rossa di Yusuke, altro ambiente di soglia, un interno protetto che si muove in un esterno, un interno che contiene ulteriori soglie come la separazione fra autista e passeggero, fra sedili anteriori e posteriori. Un esempio straordinario di come si svolge il cinema di Hamagouchi è così una potentissima scena in cui Yusuke e il giovane amante della moglie, quasi richiamando il finale dell’Idiota di Dostojevskij, durante un tragitto in auto ricordano con pudica passione l’amore per Oto in un campo e controcampo che prende un tempo, cinematograficamente parlando, infinito. Si tratta però di una confessione muta: né il marito rivela d’essere a conoscenza della relazione di Koji con la moglie, né il giovane esprime direttamente il suo amore. Entrambi permangono nella distanza, la abitano, pur giungendo a fondersi in una intimità complice. Ma il gioco delle soglie non si ferma al loro dialogo, perché coinvolge anche il silenzio di Misaki, che invisibile conduce l’auto, scandendo uno degli impercettibili, ma decisivi, movimenti d’avvicinamento tra Yusuke e la giovane, che si concluderà, nel finale del film, di fronte al desolante spettacolo del passato di Misaki, in un abbraccio, segno fisico di una distanza finalmente colmata.
Film non per tutti è stato più volte ripetuto per la pellicola di Hamaguchi e questo non solo per la durata a prima vista inaffrontabile, non solo perché i titoli di testa arrivano dopo tre quarti d’ora dall’inizio del film, tanto che lo spettatore distratto avrebbe potuto scambiarli per i titoli di coda e neppure per la sovrabbondanza della parola, tanto cara al regista giapponese. Forse, invece, la difficoltà nel cogliere la sottile e affascinante bellezza di questo film sta ancora una volta in una locuzione cara alla cultura giapponese: «mono no aware», «lo struggimento delle cose», la consapevolezza che la bellezza non risiede, un po’ come accade per la sensibilità occidentale, in ciò che è capace di vincere il tempo, di permanere inalterato e universalmente apprezzato, ma abita invece il contingente, è intimamente legata alla fuggevolezza dell’esperienza, all’impermanenza, come il momento in cui due braci di sigaretta ardono come puntini luminosi nella notte, tenute fuori dal tettuccio aperto della saab rossa da due mani che si avvicinano, mantenendosi a distanza. La malinconica e composta passione per la caducità che è il respiro e il fluire stesso della vita. Il trattenersi nell’imminenza di una soglia, che si dovrà, prima o poi, necessariamente attraversare.
