ELvis

Eccessivo, rutilante, febbrile il film di Baz Luhrmann si muove alla stessa velocità con cui la macchina da presa plana nelle sere del sud entrando dalle finestre nei locali di rockabilly neri dove Gene Vicent canta Be-Op a Lula, mentre il montaggio sincopato segue il ritmo indemoniato dell’ancheggiare pelvico di Elvis. Non poteva però reggere a lungo a questa intensità al rischio di squassarsi (o delle coronarie dello spettatore) e allora, mano a mano che ci addentra nella carriera di Elvis, il colonnello Parker (Tom Hanks), con la mole gommosa del suo doppio mento, si insinua untuoso con la stessa invadenza di un pupazzo dei cartoon sfuggito dal controllo. Alla vorticosa spensieratezza della prima parte, subentra l’amletico dilemma che contrappone spontaneità a business, creatività a star system, eversione a conformismo e l’esplosione pirotecnica della musica di Elvis diviene sempre di più a misura (planetaria) degli spettacoli da baraccone organizzati dal colonnello Parker prima del suo incontro con Elvis. E qui, però, il film rischiadi impantanarsi in un moralismo manicheo dove Faust-Elvis diventa il pupazzo del pupazzo, manipolato dal Mefistofele-Parker che gli offre il ritorno al successo al prezzo dell’anima.
Ma forse sarebbe solo bastato tagliare una quarantina di minuti e infischiarsene della morale edificante della storia, filmando la rovina di Elvis con la stessa irruente innocenza della sua irresistibile ascesa.

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