Licorice Pizza

Gary è un ragazzotto troppo cresciuto per i ruoli di bambino simpatico e impertinente che li avevano dato una qualche notorietà in film di serie B e spettacoli televisivi; Alana una giovane donna insoddisfatta, che non sa cosa farà da grande, vive ancora in famiglia con il padre, ex ufficiale israeliano ed ebreo osservante, e quando la sera torna a casa e trova la famiglia ipnotizzata davanti alla tv è difficile non farsi prendere dalla depressione. La cosa buona è che i due sono ben distanti dagli stereotipi delle commedie rosa di Netflix. Lui è un post-adolescente goffo, in sovrappeso, affascinato dal suo ciuffo di capelli di dubbia pulizia, lei magra, decisamente non sexy, nonostante il suo principale la gratifichi di benevole pacche sul sedere, con un viso gentile, un po’ anonimo se non fosse per il naso importante che non si dimentica. Si incontrano nello stand del fotografo per l’annuario del college. Come la vede, Gary comincia a corteggiarla con l’insistenza e la faccia tosta di un venditore di enciclopedie, di quelli “tachenti”, che infilano la scarpa nell’uscio per bloccare la porta chiusa in faccia. Siccome lei non ha la sensualità travolgente di Scarlett Johansson nella scena del ping pong in Macht Point, che sola potrebbe giustificare tale ardore e sprezzo del ridicolo da parte di un sedicenne, non proprio Timothée Chalamet, che corteggia una venticinquenne, vien da pensare che sia una sua tattica abituale, ma forse sono illazioni. Lei lo snobba, ma con molta condiscendenza, mentre l’esito più ovvio dell’approccio sarebbe stato quello descritto da Woody Allen in “Provaci ancora Sam”: sparisci sgorbio! In effetti un po’ lusingata deve esserlo (e subito viene da pensare agli zombi davanti alla televisione che l’aspettano a casa) e sorprendentemente, non solo per lo spettatore, ma  anche per lo stesso Gary, va a vedere le carte del ragazzo e si presenta all’appuntamento che lo sbruffoncello le aveva lanciato.

Siamo nel 1973 che come anno faceva abbastanza schifo (come del resto la stragrande maggioranza di tutti gli altri anni dalla nascita di Cristo in qua – sul prima non mi pronuncio). Gli Stati Uniti avevano raggiunto un’umiliante pace nella conferenza di Parigi che li aveva permesso di darsela a gambe dal sud est asiatico con la foglia di fico della vietnamizzazione del conflitto, di fatto abbandonando vigliaccamente i propri alleati all’annientamento, un golpe pianificato dalla CIA abbatteva, bombardando il palazzo presidenziale, il governo democratico di Allende in Cile e la guerra del Kippur aveva l’effetto collaterale di far schizzare verso l’alto i prezzi del petrolio, suonando la campana a morto per gli anni d’oro del secondo dopoguerra. Se ci mettiamo anche che in quello stesso anno scoppiava lo scandalo del Watergate, era un po’ come se si fosse ormai persa ogni illusione di innocenza.

Mentre di soave innocenza, senza traumi o tensioni, è permeato il mood che pervade il racconto di Anderson. Si intuisce che Gary veda naufragare la sua carriera di attore, ormai improponibile per raggiunti limiti d’età nel ruolo del fanciullo birichino. Bè, nessun problema, nessuna crisi d’identità. Si ricicla subito come  imprenditore nel  settore dei materassi ad acqua e quando le cose cominciano ad andare male con un guizzo repentino si lancia nel settore dei flipper e delle sale da gioco addobbandosi come un mafioso in gita premio a l’Avana e potendo contare sempre su una banda di ragazzini come agenti di commercio, venditori, guardia-sala (altro segnale che le cose nel 1973 andavano male in California: il degrado del sistema scolastico visto come gli adolescenti, neanche fossero a Mumbai, sono catapultati nel mondo del lavoro in tenera età piuttosto che frequentare le aule scolastiche). Alana intanto, come un elastico, un po’ si avvicina come socia d’affari a Gary, un po’ si allontana cercando una propria strada nel mondo del cinema prima, della politica poi; si ingelosisce davanti alle scappatelle di Gary con altre ragazze e cerca di ingelosirlo frequentando uomini più grandi, ed è tutta una corsa dell’uno verso l’altro, anche se ciascuno corre per conto proprio. Ed il film con i suoi colori, la sua luce squillante, con le sue gag divertenti è un po’ un luna-park rutilante dove le situazioni si affastellano e si connettono in modo paratattico, per progressivo accumulo. Un po’ un mondo dei balocchi, popolato per lo più da ragazzini bislacchi, dove i grandi stanno sullo sfondo, o si comportano -ed è il caso dei deliziosi camei di Sean Penn, Tom Waits, Bradley Copper, forse le cose più belle del film– come dei ragazzini scriteriati. Un mondo dei balocchi dove non spuntano mai le orecchie d’asino, senza contraddizioni ed inciampi e magari questo è il suo bello, ma in questo modo si abdica ad un confronto con la realtà, ad uno sviluppo, ad una qualche progressione nella costruzione dei personaggi. Un mondo dove succede di tutto, ma non accade mai veramente nulla e Gary e Alana sono identici nelle prime sequenze del film come nelle ultime: lei inappagata e irresoluta, mentre lui, smargiasso e simpatico cazzone  (termine tecnico), non è mai di fatto uscito dai set dei film per bambini dove ce le si dà a cuscinate di santa ragione e nasce così il sospetto di perché non si siano baciati la prima sera quando sono usciti assieme e abbiano aspettato tutto il film per farlo.

Tutto però è perfetto (un po’ troppo). Con le carrellate e i piani sequenza, le citazioni ed i rinvii giusti, tutto foderato da una strepitosa musica seventies, con i movimenti di macchina e la fotografia colorata che mandano in solluchero i cinefili, anche perché ci si aspetta, correndo a perdifiato con i nostri protagonisti per le strade di una Los Angeles patinata, di incrociare da un momento all’altro Sharon Tate a braccetto con DiCaprio o Brad Pitt che porta a spasso il suo pittbull.

Quello che manca, invece, è la percezione disillusa della distanza del ricordo, le impurità, la malinconia del crepuscolo che erano le note di fondo dello struggente e sconclusionato Vizio di forma, l’altro film dedicato da Anderson agli anni ’70.

Certo, non si può avere tutto, e comunque, come avrete inteso, già si sono levati gli osanna della critica. E le intimidazioni. Mariarosa Mancuso, la sacerdotessa del cinema cool, ha dichiarato, con una perentorietà così categorica da tradire una malcelata paura d’essere smentita, che chi non si sdilinquisce per Licorice Pizza non ama il cinema.

Per carità. Mi spiace per lei e per chi grida al capolavoro, ma a me rimane in bocca un retrogusto un po’ troppo dolciastro. Come dopo aver mangiato una pizza alla liquirizia.

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