Freaks Out

Piccoli Tarantino crescono (ma ne hanno ancora da fare di strada).
Un bombardamento alleato durante la seconda guerra mondiale distrugge il circo di Israel e dei suoi fenomeni da baraccone: la donna elettrica, il licantropo (non vi dico chi è, ma è bravissimo), l’uomo calamita e il ragazzo degli insetti. L’anziano capocomico Israel decide allora di trasferire l’attività negli USA, si fa dare dai compagni una congrua sommetta per organizzare il viaggio, ma poi sparisce. I tre uomini, mangiano la foglia e inveiscono contro il vecchio traditore. Solo la ragazza rimane pervicacemente convinta della buona fede dell’uomo, che per lei è come un padre. Ed ha ragione, perché Israel è stato rastrellato dai nazisti che lo vogliono deportare in un campo di sterminio.
E qui partono i fuochi di artificio, che sono proprio con il botto.
C’è tutta una filosofía sui freaks, anche piuttosto trendy. Che ci parla dell’emarginazione del diverso, ma fa segno anche verso la sottile fascinazione che da lui promana, evoca le virtualità celate nell’alterità, ed assieme il dramma di possedere un potere che isola.
Lasciamola perdere, per favore.
Prendiamo la pellicola di Mainetti per quel che è: un film fracassone, a tratti travolgente, a volte un po’ ripetitivo, di supereroi per caso che parlano in romanesco e combattono, aiutati da partigiani storpi, contro i nazisti guidati da un folle con sei dita che legge il futuro. Per certi aspetti un passo indietro rispetto Lo chiamavano Jeeg Robot, perché sparisce quel sottile filo di ambiguità che attraversava quell’esperienza e soprattutto perché qui Marinelli fa solo un cameo, per altri, dal punto di vista degli effetti speciali, del tasso di citazioni, della concitazione delle scene d’azione e della spettacolarità tout court, un passo avanti.
E poi inevitabilmente c’è Tarantino e la sua idea dell’’onnipotenza del cinema capace di redimere il passato e salvare sia l’Europa che Sharon Tate dal massacro. Ecco a Tarantino si possono imputare tante cose, che sia, ad esempio, un geniale furbastro che pensa una, due scene strepitose e poi ci costruisce attorno un film, spesso con materiale di riporto, ma su una cosa “chapeau” comunque: il controllo millimetrico dei tempi e la tenuta rigorosa del ritmo. E su questi aspetti, con le sue due ore e venti, Mainetti ha ancora parecchio da studiare.
Ma poi gli si perdona tutto guardano nei titoli di coda (guai a chi esce prima) le visioni del futuro del nazista pazzo. E valutando che, in fondo, in fondo, il nostro passato prossimo non è neppure così malaccio ( se lo confrontiamo, ad esempio, con il futuro)

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