Il sol dell’avvenire

Finalmente un film di Moretti che mette d’accordo tutti.
Sia quelli che sono cresciuti con i suoi film, che hanno messo come motto in Whatsapp “Faccio cose, vedo gente”, che quando qualche amico li delude dicono: “Andiamo avanti così, facciamoci del male.” e se giocano una partita a calcetto incitano i compagni urlando: “Marca Budavari! Marca Budavari”. Sia coloro che sono presi da attacchi di orticaria ogni volta (cioè abbastanza spesso) che nei film di Moretti qualcuno si mette a cantare a squarciagola, in macchina o per strada, o che gli attori, come tarantolati, iniziano a ballare di punto in bianco, come in uno sfigatissimo flashmob, quelli che strabuzzano gli occhi, come gli strabuzza Moretti in questo film di fronte agli agenti di Netflix, davanti alla recitazione declamata di Moretti e si indignano per il narcisismo egocentrico e i birignao stucchevoli di cui, dicono, sono infarciti i suoi film. Ciascuno degli appartenenti a queste due nutrite compagini sarà così uscito soddisfatto dal cinema, ciascuno confermato nelle proprie aspettative e rassicurato nei propri pregiudizi.

E potremo finirla qui.
Solo che il film è un po’ più ambiguo e sospeso di quanto possa sembrare. Oltre ad essere, forse, il più tarantiniano dei film di Moretti. Ma questa, come direbbe l’oste di Irma la dolce, è un’altra storia.

Qualche anno fa Enzo Traverso scriveva un bel libro: La malinconia di sinistra. In quel testo lo storico italiano sosteneva che il naufragio delle speranze utopiche del comunismo, che avevano attraversato il Novecento e si erano infrante contro le macerie del muro di Berlino nel ‘89, aveva generato nella sinistra un ripiegamento malinconico, raccolto in sé stesso, introspettivo e sconsolato. Il malinconico, ci ricorda Freud, vive un’esperienza analoga al lutto. Anche lui soffre per una perdita, ma rifiuta il lavoro di rielaborazione, resta narcisisticamente avvinto all’oggetto amato perduto, si chiude in se stesso, non vuole accettare la nuova realtà, rimanendo imprigionato nella sua tristezza.
Il protagonista del film di Moretti, da lui stesso interpretato, è un animo saturnino. Un regista in crisi di identità che vuole girare un film, ambientato al tempo dell’invasione sovietica dell’Ungheria, sul conflitto interiore che stritolerà Ennio, un oscuro funzionario di una sezione periferica del PCI, schiacciato tra l’intransigente fedeltà al partito e la solidarietà con le ragioni dei ribelli ungheresi. Giovanni, il regista, per una volta Moretti abbandona l’alter-ego Michele Apicella per togliere ogni residuo dubbio allo spettatore, è  rigidamente bloccato nelle sue idiosincrasie e nei suoi riti, prigioniero del suo io e del tutto catafratto nei confronti del mondo esterno non si sta rendendo conto che la moglie, compagna di vita e di lavoro da decenni, lo sta lasciando. Arroccato nei suoi princìpi (“Alcuni princìpi dobbiamo pure averli nella vita”), quasi temendo che ogni piccolo arretramento possa provocare il crollo di tutte le sue misure difensive e delle sue supposte certezze, non accetta nessuna minima infrazione o deroga. E sceneggiatura e messa in scena ci spingono a fraternizzare, nelle scene più divertenti del film, con questa integerrima, ma vana rigidità. In effetti il mondo che Giovanni fieramente respinge – strabuzzando gli occhi – è tanto volgare e grossolano quanto vincente e pervasivo. È rappresentato da un giovane regista cialtrone, che gira ridicole scene intessute di pacchiana violenza gratuita o dagli automi di Netflix che ripetono in coro che la piattaforma trasmette film in 190 paesi, ma che il film di Giovanni è privo del fondamentale momento “What the fuck!”. Solo che il film ci lascia intuire sottotraccia  che questa rinuncia ad elaborare il lutto può essere anche intesa come l’altra faccia di una rassegnazione sconfitta, di una accettazione impotente dello status quo, che si rifugia in un disprezzo elitario del mondo e della sua trivialità dove però il disgusto nei confronti dei sabot rischia di assumere lo stesso valore della difesa dell’impegno civile nell’arte e della critica dell’esistente. Più che essere messi a confronto– come suggerisce la scienza malinconica di Adorno –  con lo sguardo impossibile sul mondo reificato, colto dal punto di vista della redenzione, si concretizza sempre di più  il sospetto di assistere nel film al mugugnare scontroso di un anziano disadattato.
Ma, suggerisce Traverso, è anche possibile, un’altra accezione della malinconia di sinistra e la si può rintracciare nello sguardo con cui Walter Benjamin, nelle Tesi sulla filosofia della storia, si rivolge verso le sconfitte del movimento di emancipazione del passato, vedendo in esse non cumuli di macerie irredente, ma una promessa di liberazione che si proietta verso il futuro,  che incrina il corso deterministico della storia voluto dai vincitori, la visione per cui quello che è stato e necessario che fosse stato così, insinuando, con il dubbio, la speranza. Giovanni, quasi un epitaffio della sua carriera di cineasta, aveva scelto un finale tragico per il suo film, ma la concatenazione di una serie casuale di eventi, dall’abbandono della moglie, allo sbocciare attorno al lui di amori improbabili e imprevisti, produce un’incrinatura nel muro protettivo che il protagonista aveva eretto contro il mondo. Come auspicava il suo amato Battiato in  Voglio vederti danzare, anche Giovanni – in una scena, a seconda del mood con cui ci si avvicina al film di Moretti, commovente, ovvero irritante – assieme a tutta la sua troupe si concede alla danza vorticosa dei dervisci e ruota a ritroso nel tempo, riavvolgendo l’irreversibile. Ennio, invece di impiccarsi disperato e sconfitto, guida la rivolta nel partito contro la supina accondiscendenza all’URSS. L’Unità del 23 ottobre del ’56 non plaude servilmente alla repressione della rivolta ungherese, ma sancisce l’ingresso in una nuova stagione di autonomia, libertà, speranza nel futuro. Sembra che quasi Slavoj Zizek avesse preventivamente recensito il film di Moretti quando scriveva, a proposito di Benjamin, che la sua malinconia non rammemora una disfatta e piange una perdita, ma rinvia ad un’assenza ed assieme ad una possibilità, evoca le speranze e i sogni di un comunismo rivoluzionario sconfitto e in attesa di riscatto, piuttosto che la sua cupa realizzazione storica. La malinconia può essere così anche la condizione a partire da cui riattivare le potenzialità già iscritte nel passato, farle rivivere, grazie al potere creativo dell’immaginazione, renderle attuali, seppur intempestive, progettuali, anche se anacronistiche nel senso più forte del termine.

Tutto bene, quindi?

Può essere. Il film termina, come Otto e mezzo di Fellini, con una gioiosa e eppur melanconica, gioiosa in quanto melanconica, sfilata che mescola assieme tutti i protagonisti, reali e immaginari del film, fondendo in un’unica prospettiva il racconto e il meta racconto. Solo, che, a poco a poco, scopriamo in questo colorato corteo anche i personaggi dei vecchi film di Moretti che vengono a festeggiare tutti assieme. E non potrebbe che essere così, visto che il film, fin dall’inizio, come, e molto più di altre pellicole di Moretti, è intessuto di un costante, a volte melanconico, a volte divertito, colloquio con la sua vecchia filmografia. Troviamo la copertina di Linus di Sogni d’oro, i dolci di Bianca, l’ossessione di Moretti per le relazioni fra anziani e giovinette, il moralistico sberleffo contro l’iper-violenza nei film di Caro Diario e ovviamente la riflessione meta-cinematografica di Aprile, del Caimano, di Mia madre e la sacrosanta ripugnanza per le ciabatte e poi ancora molte altre criptocitazioni che gli esegeti morettiani si divertiranno a trovare.
Così come fanno con passione acribica gli estimatori di Tarantino nei suoi film.
Perché, se ci pensate bene, quella sensazione di deja vu che avete avuto quando Giovanni ha finalmente trovato il “What the Fuck” del suo film: “La Storia non si fa con i se. Chi l’ha detto?” poggiava sulla memoria implicita di altre storie. Quando, ad esempio, una sporca dozzina di commando ebrei scotennava i nazisti e dava fuoco a Hitler. Quando un pistolero nero macellava un’altezzosa e crudele famiglia di schiavisti sudisti. Quando una torva ghenga di hippy assassini veniva annientata (e peggio ancora, ridicolizzata) da un yankee duro e puro che salvava la bella Sharon Tate dal massacro di Cielo Drive. Nel ’69, ho giocato per un’estate con il mio mitra giocattolo di cui andavo molto fiero (una buona imitazione di un parabellum sovietico) a sorprendere la banda di Mason nel momento della sua irruzione nella villa di Polanski e sterminarla. Tarantino aveva 6 anni allora, qualche anno meno di me, ma aveva già visto Bullit con Steve McQueen, e sicuramente ci avrà giocato anche lui. E forse avrà continuato a giocarci ancora, fino a mettere questa scena in un film, 50 anni dopo. Perché le ucronie di Tarantino questo sono: la dimostrazione palese dell’onnipotenza del cinema e del regista, bambino onnipotente, che, non contento di costruire un mondo ermeticamente chiuso in se stesso, simulacro di simulacri, autoreferenziale rispetto ad un universo inter-testuale che dialoga non tanto con la realtà ma solo con altri film, inghiotte nella propria Wunderkammer la Storia, sovvertendola e assoggettandola giocosamente al principio del piacere. È questa in fondo la magia del cinema di Tarantino (qualcuno potrebbe dire la sua miseria). Come spiega Randall Auxier, Tarantino è come un ragazzino che si diverte un mondo nella sua casa su un albero, potrebbe starci anche da solo, ma, bontà sua, ci invita ad andare con lui, e, a patto che rispettiamo le sue regole, il divertimento è assicurato.
Moretti probabilmente era un bambino più introverso e malinconico di Tarantino, ma che ci stia anche lui invitando ad andare sul suo albero? E chissà, anche se l’uno ama Truffaut e l’altro lo detesta, forse entrambi potrebbero essere d’accordo con quanto il regista francese faceva dire ad un suo personaggio in Nuit amèricaine: “Les films sont plus harmonieux que la vie. Il n’ya pas d’embouteillages dans les films, pas de temps mort. Les films avancent comme des trains, tu comprends, comme des trains dans la nuit”.

 

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