Illusioni perdute

Adorno scriveva nei Minima Moralia che il mondo della tarda modernità è una realtà capovolta dove il falso ha preso il posto del vero. Ma Balzac l’aveva già capito nel primo ‘800, nell’età della Restaurazione, quando, sbolliti gli impeti rivoluzionari e nella risacca dell’epopea napoleonica, non restava che lo spazio per una disincantata disillusione. Come nell’alveare di Mandeville, anche nella Francia degli ultimi Borboni, i vizi erano la fonte della virtù e tutto funzionava a meraviglia perché ciascuno ingannava il suo prossimo e, nel gioco a somma zero, tutti erano ugualmente vittime e carnefici.
Lucien, il protagonista, giunge a Parigi inseguendo l’amore impossibile di una nobile melanconica (la sempre bella e dolente Cecile de France) ed una ancora più impossibile gloria letteraria, ma viene ben presto risucchiato nel demi monde dei giornali “bordelli del pensiero” che, vendendosi al miglior offerente, lanciano verso il successo attori, politici, letterati, ma altrettanto rapidamente li demoliscono. Lucien, introdotto in questo mondo dall’anima nera Lousteau (un Vincent Lacoste sicuramente a suo agio nei panni di Lucignolo) scopre una vena sarcastica e corrosiva, che, coniugata con una totale assenza di principi, gli fa scalare le vette della notorietà e trovare il nuovo amore in un attricetta di boulevard, ma, al culmine del successo, Lucien è accecato dall’hybris e compie il passo falso che lo condanna. Crede infatti di poter essere artefice del proprio destino, invece che un burattino che gioca un ruolo già prefissato nella grande commedia umana e per questo viene schiacciato da quelli che credeva i suoi amici e i suoi alleati.
Giannoli tratta la materia balzachiana con grande disinvoltura pur dentro i limiti di una regia classica, scandita dal ruolo importante della voce off che riprende e in parte adatta le pagine di Balzac, restituendoci comunque l’acume e l’ironica amarezza della sua prosa. Proprio questa scelta, che spesso risulta pleonastica, perché o duplica l’immagine o la sostituisce indebitamente, è invece un punto di forza della narrazione, dato che Giannoli riesce a utilizzare la voce fuori campo per imprimere delle brusche accelerazioni e dei repentini rallentamenti alla narrazione, amministrando così con sapienza il ritmo incalzante del film che ci fa attraversare a passo di corsa e senza nessun ambascia le due ore e mezza di visione. Ma soprattutto le parole di Balzac, in contrappunto con la musica che è una protagonista a pieno titolo nella fusione fra presenza diegetica ed extra-diegetica, contribuiscono a farci provare, assieme alle immagini sontuose nella ricostruzione degli ambienti, quella sensazione di piacere, più fisico che spirituale, che può trasmetterci l’esperienza cinematografica . E così possiamo pensare, al di là di facili attualizzazioni – su cui pure Giannoli ammicca – per cui fake news e impero del marketing nascono già nel regno di Luigi XVIII, che è forse proprio il cinema il regno della finzione trionfante, dove tutto è invenzione e fuoco fatuo e gioco di inganni, ma che è anche proprio questa illusione un modo diverso per rivelarci la verità.
Alla fine del film, Nathan (un Xavier Dolan ambiguo e dandy), quello che sembrava essere l’ultimo amico di un Lucien ormai sconfitto e schiacciato dal destino, cannibalizza la storia del ragazzo per farne un libro, da cui, presumibilmente, trarrà fama e prestigio. Ma quel libro e quel film, sono quelli che abbiamo appena visto, e che ci hanno permesso, grazie all’incanto seducente della finzione, di scoprirne anche il suo potenziale lato distruttivo.

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