Rivedendo, dopo 10 anni, Under the skin di Jonathan Glazer
Una ragazza si aggira con un van per le periferie di un’anonima città scozzese. La donna combina assieme una bellezza ordinaria, sensualmente un po’ volgare, i capelli neri arruffati, il rossetto smaccato, il giubbotto di pelliccia fake, con un fascino remoto e perturbante. Docile, gentile, accattivante quando chiede informazioni ai passanti; impersonale, gelida, anaffettiva, quando è sola nell’auto. Vediamo spesso il suo volto di scorcio, inquadrato dallo specchietto retrovisore dell’auto, una visione indiretta, come se la macchina da presa la stesse spiando, uno sguardo che riflette lo sguardo della donna sulle vie della città, il traffico, i pedoni. Una visione, ripresa da telecamere nascoste, fredda, oggettiva, straniante. Come se un occhio artificiale stesse passando allo scanner le strade, selezionando target. Quella donna è un predatore. Sceglie le sue vittime. Le attira in una casa diroccata. Le risucchia nella profondità assieme vischiosa e cristallina di un buio assoluto, prosciugandone l’essenza vitale, riducendoli ad involucri vuoti fluttuanti nel niente.
Film visivamente strepitoso, ipnotico e stordente nella sua colonna sonora agghiacciante, eroticamente (ed eticamente) sovversivo, volutamente indecifrabile nel suo realismo metafisico, Under the skin, che prosciuga all’essenza il romanzo originario di Michel Faber, è un ossimoro visuale e intellettuale e associa assieme, spesso nella stessa scena, un naturalismo realistico alla Loach con il più spinto formalismo, l’astrazione algida con una sensualità soffocante fino a far combaciare in modo perverso in una sequenza centrale, l’insensibilità più indifferente con la pietà. La donna nella caccia delle sue prede ha abbordato un ragazzo schivo che scopriamo, una volta all’interno del van, deturpato da una devastante neurofibromatosi che gli ha sconvolto i lineamenti. Ma nel volto della ragazza non traspare nessun ribrezzo, né penosa compassione e neppure sorpresa. Affettuosa e provocante esercita con suprema imperturbabilità la sua opera di seduzione donando a quel ragazzo sfortunato l’illusione tangibile dell’amore e del piacere. Forse ancora di più della scena in cui la donna, concentrata sulla preda, abbandonava un neonato disperato in balia della marea montante sulla riva del mare, è in queste sequenze che si tocca il vertice di quel malessere che non si può non provare guardando l’opera di Glazer. In modo trasversale Glazer ci mostra, richiamando Bataille, che l’essenza stessa dell’erotismo risiede nella profanazione – dei nostri sentimenti più umani, dei nostri valori più sacri – è rottura dell’integrità dei corpi: l’organo femminile come “breccia” e “voragine”, il grande nero che inghiotte le prede, e pone al centro della vita la morte.
Poi però accade qualcosa.
Non sappiamo cosa. Glazer non spiega. Mostra. La donna risparmia una preda. E per la prima volta si guarda allo specchio. Non spiata dall’esterno, non meccanicamente per truccarsi, ma per guardarsi. E si scopre come io, come individualità. La scena dello specchio si ripeterà, più lunga, più inquietante e morbosa, quando la ragazza, abbandonando la sua caccia e vagando per le Highlands pervase da una bellezza estranea e selvaggia, più inospitale dello spazio più profondo, sarà accolta in casa da un uomo. Nella notte la donna guarda alla luce rossastra della stufetta elettrica il suo corpo nudo. Come fosse la prima volta. Come una scoperta di sé. È una seconda nascita, parallela alla prima a cui avevano alluso le sequenze iniziali, di geometria e spazialità kubrickiana, quando la genesi della natura a-umana della donna si era manifestata attraverso l’autogenerazione di un occhio vitreo, impenetrabile. A cui corrispondeva lo sguardo alieno della predatrice. Ora invece la donna scopre, a poco a poco, in sé desideri e sentimenti. Segnali impercettibili che sono la nascita di un nuovo mondo, come ritmare il tempo con le dita seguendo una canzonetta ascoltata alla radio. Ma diventando umana – questo è il terribile messaggio che Glazer sembra suggerire – diventa preda, non tanto di extraterresti spietati e impassibili, quanto della ferocia dell’uomo stesso. E assieme al desiderio, incontra la paura e l’orrore.
“Io che provai l’orrore degli specchi, non solo davanti al vetro impenetrabile, dove ha principio e fine, inabitabile, un irreale spazio di riflessi”, così Borges. In un’ultima sequenza, il volto della creatura, che si celava sotto la pelle della ragazza, si riflette in una mise en abyme assieme orrida e commovente nel volto della donna, stupito e sconvolto. Un attimo prima della fine.
Difficile trovare una chiave riassuntiva di questa allucinazione di Glazer, che probabilmente può provocare reazioni profondamente contrastanti. Si può provare un crescente fastidio di fronte alle provocazioni e alle reticenze di Glazer, denunciarne la deriva estetizzante come copertura di un facile immoralismo glamour. Oppure si può cercare di scavare sotto la pelle di questo horror fantascientifico, alla ricerca di un’oscura metafisica negativa, di un nichilismo cinico, privo di remore e giustificazioni. Od ancora farsi semplicemente prendere dalle immagini e dai suoni, lasciarsi avvolgere dal fascino torbido di questo film. Come le prede di Scarlett, con gli occhi catturati dal suo corpo nudo, affondano nel nero. Kill me softly.
