Panoramica aerea su rovine cadenti, grovigli di scale antincendio attorcigliate, ruderi di edifici sventrati. L’Upper West Side di Manhattan alla fine degli anni ’50 non era molto diverso da Varsavia nel 1939 o Berlino nel ’45. La macchina da presa plana sullo scenario devastato per fermarsi con il campo semi nascosto da una ciclopica e sinistra presenza di metallo ossidato. Una sfera da demolizione che incombe come una spada di Damocle beffarda sullo scontro fra bande rivali, gli Sharks portoricani e i Jets caucasici, per l’effimero controllo di un territorio desolato, da cui, comunque, presto dovranno sloggiare, scacciati non tanto da una nuova gang vincente, ma dagli svettanti palazzi international style del Lincoln Center, dalla riconversione edilizia, dall’arrivo dei nuovi abitanti dell’upper class, in una parola dal luminoso e inarrestabile progresso. Si apre così il remake di West Side Story di Steven Spielberg, che fin dalle prime inquadrature tesse un dialogo con la precedente e celeberrima versione del ’61. Anche quella iniziava con una panoramica aerea di Manhattan che terminava sul campo da basket dove erano riuniti i Jets, ma la finalità di quelle riprese era puramente descrittiva e non evocativa, non suggeriva nulla, viceversa nella versione di Spielberg, queste inquadrature, poste come prologo della vicenda, rivelano con un ironia amara l’assurdità della lotta disperata fra le fazioni rivali: giovani sbandati, contrapposti in una guerra senza quartiere, ma uniti da un comune destino perdente di emarginazione e irrilevanza.
Ma sgombriamo il campo da fastidiosi fraintendimenti, Spielberg (per fortuna) non vuole filmare una versione che si ponga come giudiziosa coscienza critica dell’opera precedente. Il regista americano si rivolge con uno sguardo affettuoso al West Side Story originario, che era stato uno dei grandi miti della sua adolescenza, ma, se proprio dobbiamo fare un confronto, la prima versione ne esce fatta a pezzi. Basterebbe pensare solo al casting dei componenti delle bande: per carità, tutti ballerini strepitosi, sia nel ’61 che oggi, ma mentre i volti dei ragazzi scelti da Spielberg sembrano uscire dalla raccolta di foto degli anni ‘50 di Robert Frank “Americans”, i giovanotti di Robbins e Wise hanno la stessa sfrontatezza ribelle dei personaggi di Happy Days. Confronto impietoso, del resto, già al tempo della sua uscita negli anni ’60 il primo West Side Story, nonostante la pioggia di Oscar, era stato criticato per la sua tendenza ad edulcorare e acquietare le componenti più trasgressive del musical di Sondheim e così piuttosto che dare pagelle un po’ anacronistiche, visto il contesto completamente diverso, potrebbe essere interessante mettere in relazione le due versioni per notare come è cambiato nel tempo, ovviamente anche grazie ai prodigi della tecnica digitale, il modo di fare cinema. Prendiamo due scene paradigmatiche che filmano due dei brani più amati, con le coreografie più turbinose: “Gee officier Krupker” e “America”. Nella prima un gruppo di Jets in una stazione di polizia mima in modo dissacrante e demenziale un interrogatorio, facendosi beffe delle compassionevoli giustificazioni sociologiche della delinquenza giovanile (Our mothers all are junkies, Our fathers all are drunks, We never had the love that every child oughtta get, We ain’t non deliquents we’re misunterstood). Nella versione del ’61, intendiamoci, divertentissima, che dura poco più di quattro minuti ci sono 27 stacchi di montaggio e i passaggi da una inquadratura all’altra sono per lo più ampliamenti o restringimenti di campo o cambi di prospettiva sullo stesso asse. In quella di Spielberg ci sono quasi il doppio degli stacchi e un vortice di inquadrature diverse che imprimono un accelerazione frenetica al ritmo, con continui scavalcamenti di campo, fratture di continuità, nuovi quadri da angolature funamboliche e inattese. Ancora più significativo “America” per comprendere la cifra estetica di Spielberg. In questo caso abbiamo un divertente battibecco fra i ragazzi e le ragazze degli Sharks: le prime rivendicano fieramente la loro volontà di abbracciare l’american way of life, gli altri, più disincantati, evidenziano ironicamente i limiti dell’integrazione (Life is all right in America; If you’re all withe in America). Wise porta la scena sulla terrazza alla sommità di un edificio. La scelta è funzionale a delimitare l’area delle riprese, quasi fosse il palcoscenico, e il ballo viene filmato con campi che da totali si restringono in piani più limitati, ma sempre precisi nell’inquadratura, dato che quello che interessa maggiormente al direttore della fotografia e al regista è mostrare la complessità delle coreografie e la loro dinamicità. Spielberg sposta le scene nelle strade del quartiere multicolore per esaltare il movimento e farne esplodere la debordante vitalità. La macchina da presa riprende anche dei totali delle coreografie, ma più che altro danza fluida insieme ai ballerini, mentre il montaggio segue lo stesso ritmo della musica, siamo immersi in una giostra di colori e suoni sfacciata ed esuberante dove trionfa l’energia della coppia centrale, la bellissima e sensuale Anita (Ariana de Bose) e Bernardo (David Alvarez) che ha la stessa spudoratezza sbruffona di un giovane Banderas almodovariano. Se vuoi copiare i passi della coreografia (auguri…) vanno bene le inquadrature di Wise, se invece preferisci tuffarti nella realtà virtuale dell’eccitazione scatenata e gioiosa di una festa caraibica, senza neppur dover usare i visori VR, è meglio sceglier il film di Spielberg.
Poi va beh, non tutto gira alla stessa velocità, un po’ perché a distanza di 60 anni si sente ancora di più l’artificiosità di un Romeo e Giulietta trasportato negli slum di Manhattan, con Maria che dimentica in 10 secondi l’assassinio del fratello per cantare all’unisono con il suo killer (ok, è un musical), un po’ perché non tutto riesce a Spielberg con la perfezione facile delle sequenze precedenti. C’è qualche contro luce di troppo nelle scene romantiche, come in One Hand, One Heart che diventa ridondante filmata in chiesa, con i riflessi colorati della luce che passa attraverso le vetrate. Probabilmente non aiuta troppo il bel Ansel Elgort nella parte di Tony. Lo sceneggiatore di Spielberg, Tony Kushner, si inventa un passato in carcere del ragazzo, che era arrivato sul punto di ammazzare un rivale, per giustificare il suo rifiuto della violenza, ma mentre il volto affilato dell’altro leader degli Jets, Riff (Mike Faist) trasmette tutta la carica di rabbia e rancore del suo personaggio, Elgort ha le labbra carnose e sensuali di Brando e… e basta.
Ma in fondo sono minuzie. West Side Story di Spielberg ha vigore, ritmo, sensualità da vendere e il regista americano filma tutto con un’attenzione iperealistica ai dettagli vintage, quasi fosse un film di Jean Pierre Jeunet, ma anche una teatralità spudorata da vecchia Hollywood.
Solo un ultimo appunto. Come già nel finale del ’61, anzi, con ancor maggior enfasi, anche il film di Spielberg termina, dopo l’uccisione di Tony e lo sfogo di Maria, con il mesto corteo funebre dei superstiti delle due bande che, riconciliati, trasportano il corpo dell’eroe. Ora, se negli anni ’60 questo finale, triste, ma a suo modo consolatorio, si figurava nell’America Kennediana della nuova frontiera come una (pia) speranza di superamento degli odi razziali, negli USA di oggi, a un anno dall’assalto degli Unni a Capitol Hill, in un paese lacerato dove i governatori repubblicani si ingegnano per promuovere leggi e regolamenti al fine di ridisegnare le circoscrizione elettorali e rendere più difficile la partecipazione delle minoranze etniche al voto, per favorire, fra tre anni, la rielezione di un presidente golpista, bisogna spingere a fondo sul pedale della sospensione della incredulità per non lasciarsi sfuggire un sorriso amaro (ma, ok, è un musical).
