Saeed Roustaee non fa nulla per rendere meno ostico l’ingresso nel concitato mondo di Leila e i suoi fratelli. Un montaggio alternato mescola assieme le scene convulse di scontri fra operai e forze di sicurezza negli spazi contesi di una fabbrica in via di dismissione, le riprese di uno strano raduno di una sterminata famiglia, tutta al maschile, dove il figlio di un patriarca, che deve decidere chi succederà alla carica del padre, è infastidito dalle profferte di Hesmat, un untuoso vecchietto, e la sequenza di una seduta di fisioterapia di una donna sofferente, afflitta da molesti dolori di schiena. In effetti, sia a livello simbolico che narrativo, sono intrecciati in questa introduzione gli assi portanti del racconto che si dipanerà nelle quasi tre ore successive: lo sfondo di un paese tormentato da una devastante crisi economica che allarga le differenze sociali, gravando sui ceti più svantaggiati, il ruolo centrale dell’istituto della famiglia e la zavorra di tradizioni anacronistiche che ingabbiano l’individuo, la rabbia sofferente e la volontà di riscatto di chi cerca di spezzare l’asfissiante status quo, ma deve scontare sul proprio corpo, oltre che nell’animo, il peso della frattura con il passato.
Leila, la donna che abbiamo visto nello studio di fisioterapia, è l’unica figlia di una povera famiglia di Teheran che vive del suo stipendio, della pensione del padre e dei lavoretti precari dei quattro fratelli disoccupati. L’ultimo a ricongiungersi al nucleo famigliare è infatti Alireza, che ha appena perso il lavoro di operaio nella chiusura forzata della sua fabbrica fallita. Leila è la sola in famiglia che cerca di scuotersi dal torpore della rassegnazione che si è impadronita dei fratelli e progetta l’acquisto di un negozio in un centro commerciale per avviare una proficua attività economica. Per riuscire in questa impresa deve però scontrarsi contro le ambizioni puerili del padre, che vorrebbe investire tutti i suoi risparmi per assurgere al ruolo di padrino della sua numerosa famiglia, carica del tutto onorifica, che comporta molti più oneri che vantaggi, ma che nelle fantasie egocentriche del vecchio, riscatterebbe decenni di umiliante emarginazione. L’opposizione fra Leila e il padre è uno dei due poli attorno a cui si organizza la narrazione e il conflitto che emerge non potrebbe essere più paradigmatico: l’egoismo del vecchio patriarca si scontra contro l’altruismo della giovane donna, che combatte non tanto per sé – non a caso, l’unica nella famiglia che ha un’attività garantita – ma per il fratelli. Non è neppure posta in questione la realizzabilità dei progetti: certo l’ambizione di Hesmat è grottesca ed egocentrica, per essere il re di una festa pacchiana, dove di fatto sarà lo zimbello dei suoi cugini che mirano solo ai suoi risparmi, il vecchio è pronto a sacrificare il futuro dei suoi figli, ma anche l’ardore con cui Leila lotta per assicurare un avvenire ai fratelli non sembra tener conto della loro pochezza. Il maggiore, il cinquantenne Parviz, rubacchia il cibo a casa dei genitori e fa le pulizie nei bagni di un centro commerciale, il più giovane Farhad è interessato solo al restling e ai suoi addominali, Manouchehr, che sembrava essere una promessa negli studi, si perde dietro ad illusioni di facili guadagni invischiandosi in loschi affari ed infine Alireza, introverso e irresoluto, non sembra certo dotato di spirito pratico. Non proprio il consiglio di amministrazione di una start-up vincente. La relazione fra Leila e Alireza, il fratello più assennato a cui la donna è intimamente legata, costituisce poi l’altro fulcro di irradiazione della vicenda. Se il contrasto fra il padre e la figlia è lo scontro fra una tradizione, che nasconde dietro un velo di onorata rispettabilità solo l’ossessione per le forme e le apparenze, e la spinta all’emancipazione e la voglia di domani dei giovani, il confronto fra la donna e l’uomo mette in luce una faglia che corre dentro le nuove generazioni e ne segna la paralisi: la rabbia e la rivolta si incagliano sulla tendenza al compromesso, l’apparente ragionevolezza della mediazione, la critica controllata che mantiene il rispetto, in ultima analisi la paura di rompere definitivamente i ponti con il passato che nasconde l’angoscia nei confronti del futuro. Forse il merito maggiore di Saeed Roustaee è proprio quello di rendere attraverso la particolarità concreta dei conflitti personali che esplodono negli spazi claustrofobici dell’appartamento della famiglia di Leila, l’universalità di una condizione che attanaglia un paese chiuso in se stesso. E lo fa grazie ad uno stile che fonde assieme la secchezza acida delle sequenze rabbiose in cui si consuma lo scontro fra il patriarca e la figlia, alla ridondanza esagitata dei dialoghi animati della famiglia, con le voci che si sovrappongono e la macchina che corre dall’uno all’altro dei protagonisti, come in un film di Kechiche. Lo fa alternando con un ritmo scandito gli spazi compressi di abitazioni fatiscenti, alle grandi scene d’assieme, come negli scontri alla fabbrica occupata o nel rutilante trionfo del kitsch per la festa dell’incoronazione del padrino del clan; avvicendando picchi di tensione drammatica al lirismo degli incontri notturni fra Leila e Alireza sul terrazzo del tetto dell’abitazione di famiglia – non a caso l’unico luogo aperto e però intimo, nelle prospettive promiscue e schiacciate dell’appartamento. Un cinema che rivela – e questa è una particolarità che sembra segnare una cesura con i registi della precedente generazione, penso ad esempio a Kiarostami – un grande senso del movimento che si riflette nel montaggio, spesso alternato, talvolta ellittico, sempre preciso e cadenzato, e nell’uso a volte avvolgente, a volte nervoso dei movimenti di macchina che imprime una analoga tensione dinamica sia che la scena si concentri nelle umili ed anguste stanze della casa di Leila sia che spazi fra gli arredi chiassosi dell’hotel dove si consuma la catastrofe dell’insediamento del padrino. Un film che vive in un crescendo di aspre tensioni dialettiche e che rifugge però, pur nella definizione netta dei ruoli, da eccessive semplificazioni. Ogni situazione è sempre più complessa di quello che appare. Nessuno dei protagonisti è del tutto schietto e sincero, ciascuno per motivi che ritiene insindacabilmente giusti costruisce il suo castello di menzogne. Ciascuno trattiene dentro di sé un conflitto, di cui spesso non è cosciente, ma che comunque non è in grado di risolvere. L’egoismo gretto di Hesmat è anche l’ultima difesa di uno smarrimento attonito nei confronti di un mondo che cambia e diventa incomprensibile per il vecchio patriarca, il rancore e la ribellione di Leila sono l’altro volto di una solitudine dolorosa e sconfitta ed infine l’inazione di Alireza non può essere disgiunta dalla consapevolezza dell’impossibilità di potere ancora sperare, come confessa infatti l’uomo alla sorella: “Ho capito che crescere è, a poco a poco, rinunciare ai propri desideri”. Un’amarezza che si condensa in una bellissima scena, apparentemente avulsa dalla narrazione, quando Alireza incrocia, con tenerezza e scoramento infiniti, lo sguardo della sua ex-fidanzata, che aveva dovuto lasciare per imposizioni famigliari, riflesso nello specchio di una porta a vetri. Come se la vita di tutti i protagonisti del film si svolgesse chiusa in una gabbia di vetro, che fa intuire quali possano essere per ciascuno le possibilità di realizzazione di sé che rimangono però, per tutti, irraggiungibili. Ed infatti, in una delle ultime sequenze, Alireza, torna nella vecchia fabbrica, dove la dirigenza sta liquidando gli operai per gli arretrati di un anno con pochi soldi, corrosi dall’inflazione, ed infrange per protesta una parete di vetro con un estintore. La volontà ritrovata di ribellarsi allo stato di cose che l’opprime o piuttosto l’esplosione di una rabbia impotente?
