I tuttofare

Moha, un timido operaio marocchino che prova con serietà e dedizione ad integrarsi in una Barcellona periferica e indifferente, ha qualcosa a che fare con il fotoreporter L.B.Jeffires di Rear Window di Hitchcock. Anche lui, come Jeff, ama spiare dalla sua finestra i vicini. Lo faceva da bambino, nel suo villaggio sperduto fra i monti dell’Atlante, lo fa anche adesso e la macchina da presa indugia in una soggettiva documentaristica su scene di vita ordinaria in condomini anonimi. Perché, mentre James Stewart, paralizzato da una gamba ingessata e dalla noia, cercava di carpire l’infrazione sottile ed inquietante alla piatta routine che avrebbe potuto dischiudere il lato oscuro della normalità, Moha propria a quella normalità placida e un po’ inetta aspira integrarsi.
Girando per i cinema vuoti di un giugno torrido, fra dinosauri e acrobazie di F18 F Super Hornet, ci si può così anche imbattere in un prodotto artigianale, fatto con cura e passione, ben girato, ben scritto e splendidamente recitato da attori presi dalla strada – o meglio dalle stesse botteghe di artigiani che vengono rappresentate nel film – che non pretende di sovvertire i linguaggi cinematografici, di épater le bourgeois con trame scabrose o gremire le sale, ma solo di fare un lavoro ben fatto, come si faceva un tempo, avrebbe detto Pep, uno dei personaggi del film.
I seis dies corrientes di cui parla la pellicola di Neus Ballus sono i giorni di prova che Moha deve superare per poter essere assunto come idraulico/elettricista in una piccola ditta catalana di riparazioni. Moha è preparato, affidabile, gentile, forse anche un po’ troppo servizievole. Cattura subito la simpatia di Pep, l’anziano collega sulla soglia della pensione che dovrà sostituire, ma incontra fin dalle prime battute, la resistenza riottosa e pervicace del terzo componente della squadra, Valero, che troppo facilmente potrebbe essere scambiato con il prototipo del razzista di periferia, ma che invece incarna di più, in modo vulcanico e con una ribalda simpatia, quel timore molto comune che abbiamo tutti noi di affrontare il cambiamento (un nuovo collega, nuove relazioni e situazioni, mutare il proprio stile di vita malsano) nascondendo questa insicurezza dietro una aggressività verbale, inconcludente e torrenziale. L’argomento principale con cui Valero cerca di ostacolare l’inserimento del paziente Moha è la sua scarsa dimestichezza con il catalano che potrebbe creare problemi con l’abituale clientela, ma, al contrario, sarà molto più la fatalistica mansuetudine di Moha ad accattivare gli improbabile avventori della ditta. Il gioco su cui regge la sceneggiatura – che condensa, a sentire la regista, in una settimana un florilegio di situazioni reali, speriamo per gli idraulici catalani, spalmati in un tempo molto più ampio – è quello di dimostrare che l’alieno non è tanto ciò che esterno alla comunità ideale del nostro ipotetico “noi” identitario, ma abita già la nostra quotidianità, molto più bizzarra e imprevedibile di quanto vorremmo credere. E così per gestire imprevisti, intoppi, idiosincrasie e fissazioni può risultare molto più utile la cortese disponibilità, la timida capacità di condivisione che caratterizza l’approccio discreto e un po’ impacciato di Moha, piuttosto che la medesima appartenenza ad un ceppo etnico comune. Non aspettatevi però pipponi impliciti sulla società aperta e i suoi nemici, niente di più distante dalla tirata ideologica del film della Ballus. Anzi, mano a mano che le “ordinarie” giornate di lavoro dei nostri idraulici si susseguono, nasce il sospetto che i successi imprevisti in termini di relazioni umane del giovane Moha, che lasciano costernato il pugnace Valero, invece che avvalorare una tesi preconcetta, siano più funzionali allo sviluppo di una comicità lieve e vagamente surreale, che guarda con gratitudine ed affetto a Buster Keaton e Jaques Tati. Il tutto però senza scivolare nella gag fine a se stessa, che, sia detto per inciso, ammorba tanto cinema di genere italiano, perché, pur nel suo sviluppo aneddotico, Neus Ballus sa mantenere dritta la barra, come dimostrano le sequenze finali, quando è Valero a scontare, in una sorta di contrappasso a parti rovesciate, il pregiudizio e lo scherno da parte dei compagni di appartamento di Moha. Come dire che siamo sempre dentro lo sguardo degli altri e, proprio per questo, forse conviene che anche il nostro sappia essere più accogliente e curioso.

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