Nel primo Joker, Todd Phillips si era ingegnato per disilludere le aspettative del suo pubblico potenziale. Ci si sarebbe potuto aspettare, in linea con le migliori pellicole dell’epopea di Batman, come il Cavaliere oscuro di Cristopher Nolan, un descensus avernu nel male, magari a caccia della sua duplicità costitutiva e ci si è trovati invece davanti ad un mix fra Carl Jung e Gustave Le Bon. Da una parte la teoria dell’ombra, la parte oscura che, imprigionata dentro di noi, insidia la nostra coscienza di agenti morali e può, in determinati frangenti, emanciparsi da noi stessi e contro noi stessi, scatenando il caos – soggetto non a caso ripreso, nel secondo film, dal divertente cartone iniziale, piccolo ironico riepilogo della puntata precedente del Joker. Dall’altra, l’indagine allarmata – e criptoreazionaria- sulle potenzialità devastatrici e sovversive della folla: irrazionale, anonima, primordialmente ferina e del rapporto dialettico che intercorre fra la massa sfrenata e ribelle ed il leader che la aizza e la dirige, ma di cui è, nello stesso tempo, strumento. Se a qualcuno può interessare, non avevo particolarmente amato quel film, troppo monocorde nella direzione che Phillips fa del suo protagonista: l’ostentata follia e il lacrimevole vittimismo di Arthur/Joker, di cui la recitazione di Phoenix si compiaceva in ogni inquadratura, toglievano al personaggio ogni margine di reale ambiguità, rendendolo, di conseguenza, poco interessante. Ma era difficile non rimanere colpiti ed apprezzare, nella seconda parte, l’aggiornamento steampunk del mito rancoroso del giustiziere di tanti b movie americani degli anni ’70 e il corto circuito scatenato fra l’implosione della finzione nella violenza, con l’assassinio in diretta di Murray Franklin da parte del Joker, e il suo contagio pervasivo e fulminante, nell’esplosione selvaggia della folla rabbiosa ed anarchica, in una nebulosa di riferimenti fra le pellicole di Charles Bronson, Re per una notte di Scorsese e Il Giorno della Locusta di Schlesinger.
In questa nuova opera Phillips tenta di compiere la stessa operazione, diciamolo subito con minor fortuna, anche perché del vecchio film prende la parte più abusata, meno interessante e più patetica (il conflitto interiore di Arthur) perdendo per strada lo sguardo allucinato sul caos che sottende l’apparente tranquillità delle nostre società e portando ancora più a fondo la psicologizzazione del fumetto di cui, in vero, non si sentiva il bisogno. La domanda che insistentemente viene posta agli spettatori, anche attraverso l’escamotage della spettacolarizzazione del processo che vede come principale accusato Arthur Fleck, è: “chi è Arthur?”. Un pover’uomo, prima non voluto e poi non amato dalla mamma, una vicenda che non passerà certo negli annali della storia della psichiatria e del cinema per originalità, o è un folle e diabolico criminale, reagente chimico dell’innesco del disordine planetario? La nuova trovata, che sulla carta non sarebbe male, avrebbe dovuto essere quella di scardinare il dualismo un po’ stucchevole dell’opposizione, squarciando i fondali grigi, oppressivi, persecutori del carcere e poi dell’aula giudiziaria dove è confinato un Arthur/Jocker apatico e sconfitto con l’esplosione di colori e di musiche dell’amore. Oddio, anche questa scelta non è che sbalordisca lo spettatore per potenza innovativa, lasciandolo di stucco come le pie donne davanti al sepolcro divelto, ma almeno inizialmente avrebbe potuto puntare su due atout vincenti: il modo letteralmente “incendiario” con cui Phillips introduce inizialmente l’eversione del musical nel film carcerario e lo straordinario carisma di Lady Gaga, che ogni volta che appare sullo schermo calamita l’attenzione, ponendo Phoenix, nonostante tutto il suo arrabattarsi e il suo corpo espressionista, degno di un Cristo contorto di Grünewald, in secondo piano. Solo che Phillips si brucia entrambe le carte. Dal punto di vista della messa in scena, reitera senza particolare creatività il modello iniziale dell’intreccio fra vicenda e musical, con l’avvio del canto a cappella di Arthur e Lee (Lady Gaga), la fan che riaccende la speranza, l’amore e la voglia di vivere in Arthur (coretto che, nonostante Lady Gaga cerchi di mantenersi il più possibile low profile, risulta mortificante per Phoenix). Poi i colori si accendono, lo scenario si trasfigura, la musica (e l’amore) la fanno da padrone. Visto una volta, bene, ma poi alla lunga viene a noia, anche perché dovrebbe esserci, fra gli ingredienti del mix, pure la follia, ma, a parte alcuni siparietti più frizzanti, per il resto siamo al minimo sindacale. Quanto al personaggio di Lee, il soggetto porrebbe le condizioni per un buon sviluppo – fascino, doppiezza, inaffidabilità – ma la sceneggiatura, strada facendo, le smarrisce, riducendo la donna a poco più di una cheerleader di Joker, invaghita di un fumetto e delusa dall’omuncolo lacerato che si trova di fronte. E così sfumano, o non vengono sfruttate appieno, le enormi potenzialità di Lady Gaga che alla fine serve solo – scelta che, probabilmente, Phillips avrà considerato quale indice di grande arguzia – per sabotare e far fallire, disilludendo quindi i fan del vecchio film, una possibile replica travolgente dell’iconica scena della scalinata del primo Joker.
Cosa rimane? Un film carcerario/giudiziario dove regia e sceneggiatura si fanno un punto d’onore di inanellare tutti i luoghi comuni del genere: le guardie sadiche e arroganti, il bromuro e la medicalizzazione, la brutalità e le umiliazioni gratuite, il giovane prigioniero morbosamente affascinato dalla personalità del Joker che elegge a modello, financo l’immancabile scena di uno stupro nei cessi. Non va meglio nella versione processuale: interrogatori incrociati di difesa ed accusa che brillano per piattezza e insignificanza, tanto che ci sembra pienamente giustificata la scelta di Arthur di ricusare la sua difesa, solo che, tirato a festa con tanto di trucco e abito sgargiante da clown in aula, Joker si dimostra tanto abile come legale, come lo era Arthur nella veste di comico (e Phoenix di cantante). Cosa rimane? Lady Gaga sensuale e candidamente perversa che truccandosi da Joker canta Gonna a build a Mountain od ancora un magnifico Joaquin Phoenix, per una volta non spiritato o catatonico, ma desolato e struggente come avrebbe potuto essere Tom Waits delle origini, che sussurra roco ad un telefono a gettone muto If you gone away di Frank Sinatra. Certo che, a questo punto, sarebbe stato più adatto, l’originale Ne me quitte pas di Jaques Brel. Ma, insomma, mica si può avere tutto.
