“È davvero sorprendente, e tuttavia così comune che c’è più da dispiacersi che stupirsi nel vedere milioni e milioni di uomini servire miserevolmente, col collo sotto il giogo, non costretti da una forza più grande, ma perché sembra siano ammaliati e affascinati dal nome solo di uno, di cui non dovrebbero temere la potenza, visto che è solo, né amare le qualità, visto che nei loro confronti è inumano e selvaggio”.
Lanthimos è tornato. È tornato quello di una volta, dei primi film greci, prima dell’esplosione anarchica (un’anarchia un po’ glamour, lo concedo) di colori, humor, sensualità di Poor things. Sono tornati il suo stile algido, impeccabile e disturbante, la sua misantropia esibita, il suo narcisismo compiaciuto. E sono tornati in un trittico di episodi che declinano, con dovizia di particolari, digressioni, perversioni sado-masochistiche, effetti splatter, ammiccamenti gore, virtuosismi stilistici e birignao autoriali quanto Etienne La Boétie aveva icasticamente condensato, a mio modesto avviso con ben altra efficacia, nelle poche righe citate.
Parto con un pregiudizio. È difficile che davanti ad un film ad episodi (anche se Lanthimos preferirebbe dire atti diversi) non mi abbandoni l’idea che regia e sceneggiatura non abbiano avuto un’intuizione forte, capace di reggere lo sviluppo di almeno 90 minuti di film. Kind of Kindness di Lanthimos conferma questo preconcetto. I tre episodi, tutti costruiti su variazioni sul tema della voluttà di sottomissione, che nasconde il profondo desiderio di essere accettati e il terrore della libertà, poggiano su ideuzze flebili, flebili, giusto un po’ complicate da allusioni sospese, il cui sviluppo sembra già fin troppo dilatato nella durata di 45’/50’ minuti l’una. Un uomo, che sembrerebbe arrivato, impiego prestigioso, bella casa, una moglie affettuosa, è succube di una sorta di padre padrone, un miliardario oscuro che con una altera ninfetta, programma la sua vita nei dettagli più minuti (come si deve vestire, quanto e cosa deve mangiare, quando deve scopare con la moglie, se deve o non deve avere figli ecc. ). Quando le pretese di eterodirezione spingono però il servo verso l’omicidio c’è un tentativo di inane ribellione, che subito rientra nei ranghi. È l’episodio più riuscito, gli altri due (un poliziotto che sospetta paranoicamente che sua moglie sia stata sostituita da un fake e pretende prove d’amore crudelissime, prontamente esaudite; una scombinata coppia di adepti di una setta misteriosa – soggetti al dominio di due santoni tanto amorevoli quanto dispotici – a caccia di un messia capace di vincere la morte) sono chiaramente più deboli e zoppicanti e aumentano complessivamente un fastidioso effetto eco. Ovviamente non stiamo parlando di un video amatoriale per un concorso dopolavoristico, ma di un “comunque” signor regista come Lanthimos per cui l’aspetto tematico, per quanto riguarda l’unità d’assieme del lavoro, è il meno importante. È come ci trovassimo davanti ad un trittico di Bosch, crudele, paradossale e spaesante, dove l’enorme varietà dei temi (ecco sì, in Lanthimos, c’è più la maniacale ripresentazione dello stesso tema) trovasse un corrispettivo nel ritorno di dettagli decontestualizzati comuni, in modo che fra i momenti diversi dell’opera si instaurano, più che dei parallelismi rigidi, delle mobili somiglianze di famiglia. L’aspetto più evidente è il riaffacciarsi degli stessi attori (Williem Dafoe, Jesse Plemons, Emma Stone, Margaret Qualley, Hong Chau e ovviamente Yorgos Stefanokos, assomigliante in modo preoccupante a Lanthimos, il signor R.M.F, che è il trait-union delle tre storie). Alcuni si ripresentano sempre, seppur con minime dissonanze, nello stesso ruolo o con lo stesso mood (Defoe, il tiranno dominatore nel primo e nel terzo episodio, con la variazione del padre, affettuosamente autoritario, che pretende di esercitare ancora il controllo sulla figlia nel secondo; Plemons, anche se in situazioni diverse, infelice e ossessionato/ossessivo) altri come Stone, Qualley e Hong Chau hanno una maggior oscillazione. Ma il gioco di riflessi è più complicato: incidenti ripetuti – d’auto o di nave – che costituiscono l’innesco o il punto di svolta del racconto, l’ossessione del mangiare (troppo, poco, e ancora troppo, sbrodolandosi anche), sogni premonitori, donne nude incoscienti trascinate di qua e di là, personaggi che drogano altri personaggi, oscuri complotti, gemelli e doppi. Più complicato e, come spesso accade in Lanthimos, così plurisignificante da risultare insignificante. E poi c’è la rigorosa unità stilistica: le superfici piatte, i colori saturi, ma freddi, il bianco e nero onirico, l’ordine asettico e spoglio degli interni ripresi centralmente, in modo così classico da risultare inquietante, i carrelli in avanti, le lenti anamorfiche e l’uso fuori contesto del grandangolo, la colonna sonora dissonante, con il martellare di un‘unica nota del piano che incombe nei momenti salienti, i siparietti d’humour noir (alcuni, in vero, esilaranti, come quando, per compiacere il collega disperato per la scomparsa della moglie, la coppia di amici acconsente a vedere vecchi video assieme che si scoprono essere, non tanto di grigliate in giardino o allegre scampagnate, quanto di scopate a quattro selvagge). E soprattutto la rigidità morbosa di situazioni dove un assunto di partenza abbastanza ovvio: “ciascuno aspira al riconoscimento degli altri”, è portato, con un gioco in vero meccanico e ripetitivo che ne spegne il potenziale contenuto di humour, oltre le estreme conseguenze paradossali. Un mondo retto da regole assurde, ma universalmente accettate, che dovrebbe istillare il retro pensiero che tutte le regole sono in sé assurde, cioè infondate, dove i protagonisti sbattono come mosche contro il vetro perché ogni tentativo di sfuggire dai determinismi necessitanti, non fa che stringere ancora di più le catene che li serrano. Un mondo senza pietà (per i personaggi, ma diciamolo, anche per gli spettatori) dove regna sovrano, inflessibile e autocratico il regista Dio (il cui alter-ego è ben rappresentato dal Defoe del primo episodio) che tutto controlla, tutto tiene, tutto prevede e regge.
Solo che allo sguardo panottico di questo Moloch pur qualcosa sfugge. Ad esempio, gli spettatori che, contando sull’intervallo che interrompe per i bisogni fisiologici il film sterminato, se la danno a gambe. E qualcos’altro. In verità Lanthimos, molto concentrato sulle contraddizioni performative della tragedia greca, deve avere avuto l’influenza quando al liceo spiegavano la Fenomenologia dello Spirito di Hegel e la dialettica servo-padrone. L’idea che il dominio, anche il dominio più assoluto e brutale, abbia bisogno di ciò che domina, che anche il signore patisca indirettamente una dipendenza dal servo, che il rapporto di dominazione trattenga in sé la promessa o la minaccia della reversibilità, anche perché, qua e là, tanto è microfisico il potere, tanto puntuali, frammentate e sovversive si esercitano resistenze, inerzie, increspature e sabotaggi, non sfiora minimamente il regista greco, perso nella sua mania di onnipotenza, che, in effetti, lo perde, consegnandolo ad un opera monolitica, unidirezionale, nonostante tracce insinuanti e strizzate d’occhio sparse, priva di ogni sfumatura di ambiguità e quindi anche di profondità. E poi, siamo proprio sicuri che Lanthimos non ne sia consapevole? Tutto il battage pubblicitario del film poggia sul trailer dello straordinario balletto della sua musa Stone, che, facendo l’occhiolino alla sfrenatezza d’automa di Bella Baxter, si scatena in una danza travolgente, tanto sensuale quanto meccanica, che ha invaso per mesi tutti i prossimamente in cinema, televisione e sul web. E che, prudentemente, Lanthimos nasconde nelle ultimissime scene del film, quasi che intuisse che l’esodo dalla sala sarebbe stato più massiccio se si fosse giocato la sua carta migliore nelle prime battute. Chi comanda: il regista padrone o lo spettatore servo?
