Babylon

Se, parafrasando Shakespeare e Sam Spade/Humphrey Bogart, il cinema è fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni, Damien Chazelle mette immediatamente in chiaro di cosa si sta parlando: si tratta di merda, piscio, vomito e sangue. Non metaforici, lo si capisce subito dalle prime scene quando un pachiderma, trasportato a fatica da un camion ansimante lungo la ripida pista che si arrampica sulle pendici di una sierra per raggiungere una villa faraonica, dove si sta tenendo un baccanale pagano in onore di qualche megalomane produttore della vecchia Hollywood, defeca rovinosamente sullo schermo, con un effetto paragonabile all’arrivo del treno dei fratelli Lumière al Salon indien du Grand Café a Parigi. Straripante affresco sul Moloch del cinema che divora, digerisce e alla fine espelle le sue creature, il film segue -con un occhio a Scorzese – la parabola di tre personaggi, la loro ascesa e il loro tracollo lungo il crinale del leggendario passaggio dal muto al sonoro, ma anche dalla Hollywood dissoluta, ebbra, feroce e portentosa degli anni ’20 alla più puritana, produttiva, efficentista stagione del decennio successivo.

Il regista ha descritto la sua opera come una lettera di odio a Hollywood, ma assieme anche una lettera d’amore al cinema e forse, proprio da questa tensione, deriva la natura ambivalente e irrisolta del film. Babylon è uno strepitoso, epilettico, sgangherato, travolgente disastro. Il film non sta in piedi, si sfilaccia da tutte le parti, Chazelle sembra essersi innamorato di ogni metro di pellicola girata e spesso dilata e stiracchia le situazioni, carica i toni per oltrepassare il paradossale, rischiando di sprofondare, è il caso, ad esempio, di un imbarazzante Tobey Maguire nella parte di un sadico criminale, più che nel grottesco, nella caricatura. Eppure il film di Chazelle è anche caos disperato allo stato puro e ha a tratti un energia esplosiva che ti inchioda alla poltrona come nel caso del lisergico montaggio alternato che lega assieme, con un forsennato ritmo jazzistico sincopato, la corsa folle di Manny Torres (Diego Calva), factotum sul set di un regista squilibrato, alla disperata ricerca di una macchina da presa, e le sequenze del debutto di Nellie Leroy (Margot Robbie), che piange a comando e balla, diffondendo radiazioni letali d’erotismo, sul tavolo di un saloon di cartapesta. In precedenza una furibonda battaglia medievale aveva decimato le comparse di un colossal fracassone e nella conclusione finale della giornata di riprese della pellicola in costume, il tocco magico e casuale di una farfalla sperduta che si era posata sull’armatura della star Jack Conrad (Brad Pitt), avvinghiato alla sua bella nell’ultimo bacio con lo sfondo di uno struggente tramonto in controluce nel deserto californiano, aveva suggellato la perfetta conclusione del film, facendo dimenticare come poco prima l’attore ubriaco era stato scortato e sorretto da tutta la troupe sul crinale della collina, come nella danza macabra di Settimo Sigillo. Il film è costellato di perle del genere che però sono sommerse in una colata lavica di situazioni e frammenti disparati che si accumulano in modo paratattico, in evidente dispregio di ogni struttura sintattica. Poi ok, ci sono le orge che vorrebbero ricordare il Satyricon di Fellini, ma sono più dalle parti di Jep Gambardella di Sorrentino, ma c’è anche la malinconia indolente di Brad Pitt, lo stupore modesto di Calva e la sensualità impetuosa di Margot Robbie.

Magari, con un editing di un’oretta gagliarda, Babylon sarebbe sicuramente stato un film più riuscito, ma probabilmente avrebbe anche perso molto del suo fascino visionario da formidabile occasione mancata. 

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