Noi e loro

Pierre porta la luce nella notte. Pierre è un ferroviere, le prime immagini ce lo mostrano mentre con una torcia accesa, camminando lungo i binari, segnala ai convogli in arrivo i lavori in corso sulle line. Pierre si sta avviando verso la pensione. Solido ancoraggio ai valori della vecchia sinistra francese in cui aveva un tempo militato. Con la morte della moglie, Pierre si è dovuto però caricare il compito di crescere due figli che sono diventati il suo scopo e la sua ragione d’essere. Fus, il maggiore, (da Fusball, nomignolo a affibbiatogli dalla madre, football in tedesco – siamo in Lorena, terra di confine) è estroverso, un po’ sbruffone, empatico, simpaticamente lazzarone e non certo portato per gli studi, visto che non ha neppure terminato una formazione professionale come metalmeccanico, ma calciatore promettente. Louis è più composto, riflessivo, la passione per i libri e il sogno di studiare alla Sorbonne. Nonostante però la differenza dei caratteri e degli interessi, la vita famigliare scorre tranquilla, un sincero e forte legame si stringe fra i tre. Non c’è bisogno di molte parole in questo piccolo mondo di maschi soli. Momenti di intimità quotidiana, ben filmati dalla regia in ampi controluce, nella casa moderatamente disordinata, moderatamente pulita della famiglia: gesti ordinari, semplici, naturali, un affetto profondo che non necessita di grandi manifestazioni esteriori perché si sa scontato. Ma la luce che illumina le prime scene notturne del film serve, più che a rischiarare, a sottolineare le tenebre che la circondano. Pierre viene a sapere per caso che Fus non solo simpatizza, ma milita attivamente in gruppi della destra estrema, aggressiva e xenofoba. Che è affascinato, oltre che dalle parole d’ordine razziste, dalla pura e semplice manifestazione della violenza.

Qualcuno potrebbe vedere in questo un limite del film, ma sceneggiatura e regia non ci danno nessuna spiegazione di queste scelte. C’è un contesto: un universo maschile chiuso in se stesso (il pub, lo stadio, la palestra), la marginalizzazione della disoccupazione, un futuro incerto, forse una rabbia repressa che vuole trovare capri espiatori, ma non c’è una motivazione chiara che può farci capire perché un ragazzo schietto e a suo modo gentile, formato in un ambiente ispirato da sani principi di rispetto e solidarietà, senza nessun rigetto verso l’autorità della figura paterna, nei confronti della quale prova stima e un sincero affetto, possa aver ripudiato tutto il mondo di valori che costituiva il suo orizzonte. È come se la regia stessa volesse farci provare direttamente quell’esperienza di stupore, incredulità, smarrimento in cui precipita Pierre. Un’incapacità di comprendere che diventa la chiave dei rapporti fra il padre e il figlio, come se ci fossero due forze contrastanti che da un lato li avvicinano, per un amore radicato, che non può essere distrutto da nessuna contrapposizione ideologica e dall’altro li allontanano nell’incapacità reciproca di entrare, neppure tramite l’empatia di un legame profondo, nelle ragioni dell’altro. Le discussioni violente che contrappongono i due riproducono un dialogo fra sordi. Non importa che, razionalmente, lo spettatore possa aderire più facilmente alle argomentazioni del padre: (“Cosa parlate di radici? Qui in Lorena un giorno siamo tedeschi, un giorno siamo francesi…”) rispetto agli slogan farneticanti del figlio. Sono due universi di valori incomunicabili, che non possono trovare neppure quei minimi punti di contatto per criticarsi reciprocamente. E questo è plasticamente dimostrato nelle splendide interpretazioni di due grandissimi attori, al meglio nel film delle sorelle Coulin: Vincent Lindon e Benjamin Voisin. Da un lato il dolore, ma anche la rabbia muta e impotente del padre (Lindon) che non vuole neppure controbattere gli argomenti di Fus, che sono per lui non solo inaccettabili, ma, come i nuovi amici del figlio, “feccia”, oscenità barbare, che si possono solo negare e combattere; dall’altro il livore del figlio (Voisin) , chiuso a riccio nel suo silenzio, nella sua sfida che si tinge sempre più di disprezzo. A rendere ancora più evidente l’impossibilità di un contatto fra i due sono anche gli inutili tentativi di mediazione del fratello minore – molto bravo anche Stefan Crepon – soffocati nel double bind di non poter prendere partito per nessuno ed assieme mantenere la complicità con entrambi, di biasimare le intemperanze di ciascuno, ma di rimanere comunque legato ai principi e ai valori con cui è stato educato. È in questo dissidio lacerante, fatto di attriti insanabili e struggenti riavvicinamenti impossibili, che non fanno che sancire la distanza ormai inattraversabile fra i due, la parte migliore del film, che segna invece qualche colpo a vuoto quando la vicenda, prevedibilmente, precipita verso la tragedia e sceneggiatura e regia, fino allora tanto misurate da apparire secche, si lasciano andare a qualche passaggio retorico, quando l’urgenza del messaggio da trasmettere eccede rispetto alla sobrietà della messa in scena. Eppure, anche in questa parte, il film delle sorelle Coulin riesce a trasmetterci emozioni profonde, scavando nei sentimenti di Pierre e facendo emergere con sempre maggior chiarezza quanto era rimasto sottotraccia nella contrapposizione aspra fra padre e figlio. Al di là dell’afflizione, al di là di un amore che non può spegnersi neppure di fronte alle colpe del figlio, la consapevolezza amara di una disfatta senza appello in quello che era stata la sua missione di vita, connessa con la vergogna, un sentimento che, nell’abisso della disperazione, potrebbe apparire anche meschino perché rimanda alla nostra preoccupazione davanti allo sguardo degli altri, ma che diventa il sintomo e l’emblema, proprio in questa fragilità, di un’umanità sofferta e sconsolata, la cui espressione, nel volto scavato, dolente, sconfitto di Lindon, sarà un immagine che ci si porterà dietro ben oltre lo scorrere dei titoli di coda.

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