No Time To Die

Allora, posso immaginare che quanto vi sto per dire non stia proprio in cima ai vostri interessi, ma quando esce un blockbuster aspetto la scadenza naturale della sua programmazione, quando sono scemate le turbe di giovinastri popcorn-muniti, per andare a vederlo. Così è stato per l’ultimo Bond, che immagino ormai abbiate visto tutti e quindi non penso di rivelare nulla di sensazionale nel dire che l’epopea dell’era Graig si conclude con un finale con il botto (chi ha orecchie per intendere…)
Insomma c’è proprio tutto, in una sorta di sintesi, o meglio sarebbe dire, prendendo a prestito uno straordinario tango di Discepolo, di cambalache post-modern di oltre mezzo secolo di Bond-mania. C’è la Spectre, anche se non vince il primo premio in cattiveria, ci sono gli inseguimenti in auto, con tutta una sfilza di Aston Martin da museo di auto storiche con in prima fila l’indimenticabile DB5 del ’64 (l’anno di Beatles for sale per capirci), debitamente aggiornata con cannoncini a canne rotanti vulcan m61 al posto delle ormai anacronistiche mitragliatrici. Ci sono le basi munitissime e segrete dei malvagi in isole sperdute nel mezzo dell’oceano, dove Bond si intrufola facendo scempio, e luoghi affascinanti e esotici fra i quali spicca Matera e chissà cosa avrebbe potuto dire Carlo Levi. Ci sono i massacri dei servi anonimi dei cattivi, abbattuti come birilli da Bond con la stessa meticolosa acribia con cui un notaio sbriga formalità burocratiche e c’è l’immancabile arma fine del mondo rubata da un genio del male stravagante. Piccolo inciso su questi cattivissimi che posseggono ricchezze che li permettono di organizzare complotti planetari, che al confronto la cospirazione vagheggiata sul Covid e Qanon si riducono ad invidie di condominio, ed invece di spassarsela beatamente sulle loro isole private con sciami di belle donne (o uomini, siamo per la parità di genere) progettano l’estinzione della specie umana e hanno costretto da 50 anni a questa parte legioni di sceneggiatori a lambiccarsi il cervello per trovare giustificazioni plausibili (?) a queste stramberie. E ci sono gli aggeggi di Q, così palesemente astrusi che sembrano usciti dalla rubrica del Male: “Mai più senza”, e c’è lo scherano ottusamente malvagio del potente, che questa volta ha le fattezze di Ciro di Gomorra, anche lui come Shark di Moonraker afflitto da una menomazione fisica – su questo piano la political correctness della serie ha ampi margini di miglioramento – che gli sarà fatale. E ovviamente ci sono i martini “shaken not stirred” (ma c’è ancora un barman sulla faccia della terra che mescola un vodka martini?) e donne bellissime, ma veramente bellissime (tenete conto che quando appare sullo schermo Lea Seydoux lo spirito critico del vostro umile recensore, già incline alla partigianeria, regredisce al livello di quello di un bimbo di 6 anni davanti alla cioccolata).
Ecco, c’è proprio tutto, quello che latita forse è la sceneggiatura. Oddio, non è che non ci sia carne al fuoco, anzi ce ne sarebbe abbastanza per una nuova serie, ma la narrazione si aggroviglia fra la necessità di salvare il mondo e quella di salvare il passato di Bond e della bella Madeleine Swann (e del resto con un nome così smaccatamente proustiano…) e nessuna delle due linee di sviluppo ne esce bene. Chi ne viene fuori peggio è però la bella Seydoux (a questo punto però il bambino di 6 anni che in me si dissocia da quanto segue) che è costantemente fuori parte perché costretta a muoversi fra tre o quattro registri su cui il folto gruppo di sceneggiatori, che ha lavorato dal 2017 allo script, non è evidentemente riuscito a mettersi d’accordo. Ma il limite più palese sta nell’antagonista di Bond, uno sciapo Rami Malek che sembra la controfigura anabolizzata di Peter Lorre. Già il fatto che si presenti con il volto deturpato dalle cicatrici non depone a suo favore– possibile che gli sceneggiatori non trovino niente di meglio di questi frusti mezzucci per sottolineare la crudeltà del villain di turno, tanto varrebbe farlo recitare con un cartello appeso al collo con su scritto “Sono malvagio”. Inoltre, bisogna tenere conto che, da quando 007 ha assunto le fattezze dell’austero Graig, attore di tante virtù, ma non naturalmente portato all’ironia, il versante leggero e vagamente dada della vicenda dovrebbe essere appannaggio del criminale pazzo, come ben mostra, ad esempio, Cristophe Waltz in Spectre. Qui invece Malek/Lyutsifer (anche Lyutsifer, ma per favore…) afflitto da brama di vendetta e invidie di paternità è pesante come un macigno e il punto più basso si tocca quando il nostro giustifica nel colloquio a tu per tu con Bond, impotente e in sua balia (un altro must rispettato) il suo operato. Detto dopo decenni di esperienza in materia, sembra uno studente impreparato che, durante una interrogazione di filosofia, cerca di arrabattarsi mescolando frammenti di fumisteria, carpiti fra un sonno e l’altro durante le spiegazioni, a paroloni roboanti di cui in modo manifesto non conosce il significato, il tutto intervallato da meditabonde pause che dovrebbero dare profondità al discorso, ma che sono soltanto un patetico trucchetto per fare passare il tempo fino all’agognata campanella di fine round. Tanto che Bond si prostra ai suoi piedi, non tanto per simulare servile sottomissione e invece sfoderare una p38 occultata (gli intelligentissimi cattivi sono notoriamente scemi), ma più probabilmente per tapparsi le orecchie.
Ma insomma, non stiamo a guardare il pelo sull’uovo. Alzi la mano chi va a vedere i film di 007 per gustarsi le sottigliezze della sceneggiatura.
Bond/Graig lascia la scena con il meritato onore delle armi, le salve di cannone destinate agli eroi e l’ultimo whisky con gli amici.
Anche qui l’implacabile Graig, che non nasconde, ma anzi esalta il tempo che gli scava ancora di più il volto, attraversa catastrofi imperturbabile, con i suoi perfetti completi di Salive Row che, come è tradizione, gli tirano sul petto poderoso come una giacchetta di Doppelganger. Non si lascia scalfire da nulla di tutto ciò che gli capita attorno, ma assieme riesce anche a dare spessore drammatico ad alcune scene che, senza la sua presenza, sarebbero sinceramente improponibili. Sopporta stoicamente il politically correct imperante, abbozzando composto quando viene a sapere che la sua sostituta è un’atletica donna di colore che ha superato gli esami di concorso per agente segreto non solo perché spara e fa a pugni come Tex Willer, e questo è il minimo sindacale, ma anche perché sa sciorinare battute argute pure quando orde di nemici la stanno accerchiando.
E poi Bond si diverte e ci diverte anche. Non tanto con la bella Seydoux, perché lì è tutto dolore e patimento, e non solo, come è ovvio, veleggiando in Jamaica come qualsiasi pensionato medio dell’inps, ma soprattutto quando incontra la strepitosa Paloma/Ana de Armas, sgattaiolata fuori dai sogni digitali di Ryan Gosling in 2049 per diventare una stagista della Cia e Bond-girl d’eccezione. Tanto per cominciare, sempre in rispetto delle nuove rigide norme post me too, Bond si esime dal molestarla, del resto Graig si era sempre trovato un po’ impacciato nel ruolo di bellimbusto, ma le chiede pudibondo di girarsi mentre si sta cambiando per indossare il suo impeccabile smoking d’occasione. E così nella festa a Cuba della Spectre, che si trasforma presto nel carnevale della morte rossa di Poe, Fukunaga, in altre situazioni piuttosto scolastico, dà il meglio, uguagliando l’ironia e il tocco leggero di Mendes. Pure se si trovano neppure ad un terzo del film, queste sequenze sono il vero passo di addio di James Bond che volteggia assieme alla sensuale Ana, fra sparatorie e arti marziali, come Fred Astaire e Ginger Roger in Carioca, in un leggiadro divertissement fra nostalgia e strizzate d’occhio per il futuro della serie.
No time to die. Chiunque sia il prossimo 007 della nuova era post Graig, o una scultorea nera, come è dato immaginare, o un gay mingherlino e trotskista, non è ancora tempo di morire per l’agente segreto di sua maestà 007.

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