“Immagina un capitano sulla sua nave nel momento in cui deve dar battaglia; forse egli potrà dire: bisogna fare questo o quello; ma se non è un capitano mediocre, nello stesso tempo si renderà conto che la nave, mentre egli non ha ancora deciso, avanza con la solita velocità, e che cosí è solo un istante quello in cui sia indifferente se egli faccia questo o quello. Cosí anche l’uomo, se dimentica di calcolare questa velocità, alla fine giunge un momento in cui non ha piú la libertà della scelta, non perché ha scelto, ma perché non lo ha fatto; il che si può anche esprimere cosí: perché gli altri hanno scelto per lui, perché ha perso se stesso… Poiché quando si crede che per qualche istante si possa mantenere la propria personalità tersa e nuda, o che, nel senso piú stretto, si possa fermare o interrompere la vita personale, si è in errore”. Così Soren Kierkegaard in Aut-Aut, 1843. Ma Kierkegaard era una persona mortalmente seria.
Dall’altra parte degli stretti danesi, a Oslo, una ragazza spigliata, assecondata da una madre accondiscendente, passa con molta disinvoltura da una facoltà di studio ad un’altra, da una relazione affettiva all’altra, con la spregiudicata innocenza dei suoi vent’anni (a queste latitudini e in questo spicchio di mondo benestante, sarebbe meglio precisare) per cui il futuro è un campo aperto di possibilità dispiegate. Ci racconta tutto questo, mentre scorrono veloci le immagini delle avventure disciplinar/affettive di Julie, una sussiegosa voce fuori campo, quasi fossimo nelle prime pagine di un romanzo di Dickens, che ci introduce poi nel vivo della narrazione quando la ragazza, come la farfalla che ha volato di fiore in fiore, giunge, giovane, ma non più giovanissima, alla soglia dei trent’anni, a costruire una sua prima relazione duratura con Aksel, un uomo più maturo, ma soprattutto a provare a rispondere alla domanda delle domande: “Dis que a tu fait, toi que voilà, de ta jeunesse”?
Si avvia così il film di Trier (nato anche lui a Copenaghen, come Soren, ma cittadino norvegese) una ballata gentile, venata di malinconica allegria, sull’irrequietezza, la posticipazione, la incapacità, ma anche, perché no, l’inopportunità di diventare adulti. La struttura, articolata in un prologo, un epilogo e dodici capitoli, di fatto slegati fra loro, dà al regista il vantaggio di procedere per elissi, evitando di soffermarsi sui raccordi, per focalizzarsi solo su momenti emblematici, ma nello stesso tempo gli permette di spezzare la processualità di una evoluzione, rende l’idea di tasselli separati e con questo ci fa partecipi della coazione di Julie a ripetere gli stessi comportamenti, a rimandare le responsabilità, a differire le scelte: procrastinare il momento di impegnarsi seriamente in un’attività, di concretizzare la relazione con Aksel avendo un figlio da lui, di risolvere il difficile rapporto con il padre, anche solo di tradire fino in fondo il suo compagno, insomma, di avere finalmente un ruolo di protagonista nella sua vita dove fino a quel momento ha svolto, per sua stessa ammissione, solo una parte da comprimaria. Julie, titubante, ma assieme fluida, a tratti sinceramente indisponente, non è mai pronta, manca l’attimo della decisione, è intempestiva, qualcosa deve sempre accadere “prima”, ma non accade mai, eppure nello sguardo di Trier non c’è nessuna condanna e neppure nessun giudizio. Se la voce fuori campo, da bravo narratore onnisciente, sembrava velata di accigliato rimprovero, quando, nel prologo, elencava le giravolte dei vent’anni di Julie, nel momento in cui ritorna per sottolineare la drammatica circostanza della fine della relazione con Aksel, anticipa di un attimo o ripete subito dopo quanto i protagonisti stanno per dire o hanno appena detto, decostruendo la sua stessa funzione di sguardo esterno e distaccato, immergendosi nella situazione e dichiarando implicitamente la sua incapacità di prendere una posizione chiara. Anche Julie è una donna senza qualità, resa magnificamente dalla bellezza ordinaria di Renate Reinsve, ma la sua instabilità insoddisfatta non le impedisce di planare leggera, come su di un surf, sulla cresta dell’onda della vita. Dietro la sua apparente spensieratezza, c’è però la paura dell’irreversibilità dello scorrere del tempo, mescolata con una certa ansia auto-distruttiva, ma c’è anche la curiosità sempre rinnovata per soglie che rimangono socchiuse e che sarebbe un peccato non attraversare, salvo sempre dopo tornare sui propri passi. Solo che, come sapeva il vecchio Soren, se anche cerchi di sottrarti alla vita, lei ti stana comunque e lo fa, molto semplicemente, ponendoti davanti a passaggi obbligati. Come la morte.
Trier, che ha l’abilità di girare una commedia sentimentale, senza mai darcelo a vedere, non ci dice nell’epilogo se Julie è diventata grande (anche se ci sono degli indizi in questo senso).
Ci mostra invece quando Julie ritrova finalmente, a dispetto di Kierkegaard, se stessa. E questo momento di felicità piena ha poco a che fare (e come si potrebbe darle torto) con la posata maturità. Siamo al centro del film, Julie sta per decidere di lasciare Aksel per non decidere di stare con lui e rimandare ancora la scelta verso la responsabilità e l’età adulta. Proferisce il proverbiale “dobbiamo parlare” e… miracolosamente il tempo si ferma e Julie corre via per una città dove tutti si sono pietrificati: le biciclette in un acrobatico surplace, gli amanti in un bacio, i passanti in mezzo alle strisce con il vento fra i capelli, (carrello laterale a seguire la sua corsa, riprendendo una identica inquadratura di Frances Ha, omaggio alla sua sorellina d’oltreoceano: la stessa inquietudine, la stessa impazienza, forse solo un po’ meno nevrotica, nel bellissimo film di Noah Baumbach). Non si deve più inseguire la vita, la nave del capitano è congelata sul mare, ed è invece Julie che può correre libera verso il suo nuovo, effimero, ça va sans dire, amore.
