One Second

One second di Zang Yimou avrebbe dovuto essere proiettato alla Berlinale del 2019, ma, poco prima della sua presentazione, fu improvvisamente ritirato per non meglio precisati “motivi tecnici”, finendo in un limbo lungo e travagliato, di cui i retroscena non si conoscono, prima di riapparire due anni dopo, probabilmente rivisto in alcune sue parti e accorciato di poco più di un minuto rispetto la versione originale. Ora, non sappiamo se in quella frazione tagliata qualche personaggio, di colpo, si girasse verso la macchina da presa proferendo un accusa diretta contro il regime, del tipo “Xi Jinping è un babbeo”, ma la visione dell’opera così come è arrivata a noi ci dice molto sulla resilienza del cinema e sulla proverbiale ottusità della censura (comunista cinese in questo caso) che non ha capito come il film di Zang Yimou possa essere una spietata, quanto ironica e divertita, critica al dogma del materialismo storico volgare, per cui sono le condizioni materiali e gli interessi economici, a muovere e dirigere l’azione degli uomini.
Le prime immagini sono volutamente spaesanti, un uomo sperduto si aggira in un favoloso deserto di dune spazzato dal vento, uno scenario surreale se confrontato alle immagini stereotipate di una Cina assiepata di folle, un tempo attraversata da nugoli di biciclette sciamanti per le vie, oggi rivestita da un tappeto fitto di grattacieli, solcato da nastri intrecciati di grandi autostrade. L’ambientazione, a mezza strada fra un racconto da Mille e una notte e il teatro dell’assurdo, introducendo una sorta di favola/apologo sulla potenza del cinema, farà da fondale per un inseguimento senza esclusione di colpi fra l’uomo e una ragazzina sudicia e arruffata, entrambi alla caccia di una pizza cinematografica che i due si contendono e si sottrarranno l’uno all’altra ripetute volte, in un gioco delle parti tanto serio quanto comico da ricordare le giostre imperturbabili di Buster Keaton (che, detto per inciso, interpretò l’unico film diretto da Samuel Beckett). Il fine della lotta non potrebbe essere più contrapposto. L’uomo è fuggito da uno dei tanti campi di rieducazione politica, di cui era disseminata la Cina della Rivoluzione Culturale. Il suo unico scopo è vedere il cinegiornale contenuto nello spettacolo a cui appartiene la bobina, dove appare per un secondo la figlia, e vuole sopra ogni cosa che la pellicola giunga integra alla sala di proiezione; la ragazza, orfana e reietta, ha bisogno invece di qualche decina di metri di celluloide per ricostruire un paralume che il fratellino aveva inavvertitamente bruciato. Da un lato il potere evocativo del cinema, la sua capacità di fissare l’attimo, di sostituirsi ad una realtà smarrita, dall’altra il richiamo ad una materialità tattile, il nastro rigido e traslucido della celluloide che ormai anni di immaterialità digitale ci hanno fatto dimenticare. Ma c’è anche un terzo soggetto, collettivo, che vuole spasmodicamente la pellicola, ed è la comunità della cittadina dove è atteso il film: donne, uomini, bambini che lo aspettano con un’ansia messianica, come si attende un annuncio di redenzione, l’avvento di un nuovo mondo, dove la finzione è più reale e convincente della quotidianità squallida di cui si è prigionieri. Per questo, quando l’aggrovigliarsi delle peripezie del trasporto delle pizze del film arriveranno a portare nella cittadina una bobina completamente srotolata, infangata ed attorcigliata su se stessa per essere stata inavvertitamente trascinata da un carro per chilometri, tutta la comunità contribuirà al restauro della pellicola sotto la direzione di un carismatico mister movie, proiezionista nonché grande sacerdote del culto cittadino (non a caso il vecchio cinema in cui verrà proiettato il film richiama, pur nella miseria del borgo, le geometrie di un diroccato tempio decò). Grazie al ricorso ad un montaggio fluido e sapiente, Zang Yimou ci fa così partecipi della sua dichiarazione d’amore per il cinema che non si esprime certo a parole, ma si mostra nella cura premurosa, nella sollecitudine attenta, nello zelo appassionato con cui decine di mani dipanano con gli hashi la pellicola ingarbugliata (c’è da dire che noi occidentali con le più aggressive forchette ci saremmo trovati a mal partito), la puliscono, la sventagliano dolcemente. Le immagini diafane del negativo che riappare mentre il fango cola dal nastro, la brillantezza del riflesso delle strisce di celluloide appese ad asciugare sono un inno, permeato di una nostalgia agrodolce, alla presenza fisica del mezzo cinematografico, così come, a suo modo, lo è il fascio di luce che si proietta nella sala gremita verso lo schermo bianco, dove la folla assiepata gioca alle ombre cinesi prima della visione del film. Fisicità e esperienza collettiva del cinema-cinema versus immaterialità e autoreferenzialità autistica dello streaming davanti allo schermo del computer o di un telefonino; è inutile dire da che parte si colloca il vostro umile recensore.
Zang Yimou non è però così ingenuo da non sapere che la fascinazione del mezzo nasconde anche zone d’ombra e ambiguità. Il film, Heroic Sons and Daughters, che si proietta sullo schermo davanti alla cittadinanza estasiata, è un rozzo prodotto di propaganda, che spinge la comunità festosa ad identificarsi, cantando a squarciagola canzoni militari, con gli eroi di celluloide in lotta contro i biechi scherani del capitalismo, rispondendo allo stimolo con un riflesso pavloviano che avrebbe fatto felici i gerarchi del regime. Ma, d’altra parte, contenendo anche al suo interno una improbabile storia di un genitore che ritrova nel mezzo della battaglia la figlia, il film fa anche implicitamente segno e annuncia a noi spettatori, ad un livello metà-linguistico, la progressiva trasformazione del rapporto fra il fuggitivo e la ragazzina, due solitudini desolate che si ricompongono in un nuovo legame d’affetto.
Come dire che la finzione del cinema è pharmakon, libera, ma può anche intossicare: allude, provoca, emoziona, trascina con la potenza di un immateriale materico, evanescente come un gioco di luce ed ombre su di uno schermo bianco.

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