Le buone stelle

In una notte di pioggia battente con le strette scalinate dei vicoli di una cittadina coreana trasformati in cascate, una ragazza silenziosa si dirige verso un centro di ricovero per l’infanzia abbandonata, dove lascerà, in una sorta di moderna ruota degli esposti – con tanto di carillon accogliente – il suo bambino. Il piccolo viene intercettato da Dong-soo (Gang Dong-won) un volontario dell’istituto che, in combutta con  l’amico Sang-heyon (il grande Song Kang-ho di Memories of murder e Parasite di Bong Joon-ho), organizza un traffico di neonati che vengono fatti sparire dalla struttura per essere venduti al miglior offrente. Questa volta però le cose non vanno come previsto. La giovanissima mamma So-young (la notissima cantante K-pop coreana Lee-Ji-eun) si rifarà viva per riavere il bambino, solo che, dopo aver realizzato che dal traffico si possono guadagnare un mucchio di soldi, deciderà di accompagnare i balordi nella loro impresa. C’è anche la polizia, due agenti donne che (chissà perché) piantonavano la struttura caritativa. Seguiranno fin dall’inizio le mosse del terzetto e cercheranno di incastrare i complici, senza riguardi per l’etica professionale, inducendoli indirettamente, quando non li vedranno più troppo convinti, al crimine. C’è anche sullo sfondo una storia di mafia, di usura, un assassinio, una vedova neppure troppo inconsolabile che assolda una coppia di sicari per recuperare il bambino. E poi c’è un orfanello che, ad onta del suo fisico non proprio atletico, sogna di giocare nella Premier league inglese, e si unisce al viaggio dei broker, adottato come mascotte dal gruppo. 

Ecco, se vi sembra una trama sconclusionata e improbabile, con troppa carne al fuoco, è effettivamente così. Se invece pensate di essere entrati in un noir disperato, popolato da persone ciniche e ripugnanti, siete fuori strada. Siamo in un film di Koreeda e tutto non è come appare e possiamo aspettarci dai personaggi della vicenda le azioni più imprevedibili, anche se, a loro modo, surrealmente coerenti. Dong-soo e Sang-heyon, i due broker di bimbi, assicurano alla madre che il loro business è benevolo, quasi disinteressato ( a parte il piccolo particolare del rimborso spese per i loro servigi) volto ad aggirare le pastoie della burocrazia per le adozioni ufficiali per donare al bambino una vera famiglia. E, ad onta di ogni cinica ma realistica considerazione, è effettivamente così. La madre bambina sembra attratta solo dal denaro, anche se simula un interessamento per il futuro del bambino. Mentre è vero l’opposto. 

Sulla scia della Palma d’oro Affari di famiglia, ma, bisogna dirlo, in modo meno convincente, il regista giapponese, trasferito per l’occasione in Corea, prosegue nella sua esplorazione delle metamorfosi delle relazioni famigliari in un contesto disarticolato e fluido, dove l’esplosione dei legami tradizionali lascia comunque un disperato bisogno di ricostruire altre relazioni che si ritessono combinando assieme casualità ed elezione. Tutti i personaggi di questo scombinato gruppo di malfattori hanno alle spalle le macerie o peggio il deserto: per Sang-heyon un matrimonio distrutto e una giovanissima figlia che, dolcemente, ma inflessibilmente lo ripudia, So-young una famiglia abbandonata e un presente di prostituzione e degrado, Dong-soo e Y-jeen (il trovatello) l’orfanatrofio. Tutti assieme cercheranno di creare, quanto meno per lo spazio di un arruffato on the road, una famiglia affettuosa per il piccolo Woo-sung dove i ruoli, a seconda delle situazioni, continuamente si scambiano di posto in modo bizzarro – ora la giovane madre è moglie di Sang-heyon, ora è sua figlia, ora è sposata con Dong-soo , il neonato e il trovatello calciatore sono figli indifferentemente di Sang-heyon o di Dong-soo, mentre Y-jeen è il fratello più piccolo della ragazza – quasi a sottolineare che in una famiglia, come la vede Koreeda, non sono importanti le relazioni predefinite, “naturali”, ma il mood complessivo, l’urgenza e il bisogno dell’altro, la volontà di proteggerlo, la capacità di darsi e accogliere. Il tutto, come si può immaginare, corre sempre sul filo di scivolare sulla china dello stucchevole e a volte, il discrimine fra la poeticità accennata di certe immagini e situazioni e l’esondazione di melassa è veramente minimo. Corre in soccorso la finezza dello sguardo di Koreeda, la sapiente ingenuità di certe scene – delicate mani di donna che cercano di catturare la pioggia o un petalo cremesi fra le gocce d’acqua che scivolano lungo il finestrino di un auto – e soprattutto la capacità di creare empatia di uno straordinario cast di attori fra cui brilla Song Kang-ho con il suo bonario humor triste e la sua struggente normalità.  In una scena che sembra – come altre del resto – piuttosto futile, la detective capo parla al telefono con il suo compagno mentre sullo sfondo, proveniente da un locale vicino, si sente Wise up di Aimee Mann (un omaggio a Magniolia di Paul Thomas Anderson?). Non sappiamo di cosa parlino, anche se si intuisce una incomprensione fra i due. Sentiamo solo la voce della poliziotta che, ad un certo momento, riconosce che “la cosa non ha senso”. Potrebbe in fondo essere una excusatio non petita o forse una dichiarazione indiretta di intenti. In fin dei conti tante cose nel film sembrano irragionevoli. Come lo è però anche il nostro bisogno, nonostante l’oceano di disincanto e disillusione in cui siamo immersi, di perdonare ed essere accettati, di amare e essere amati.

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